domenica 30 dicembre 2012

Uomini e porci.





Sto stretto, la schiena mi batte contro questa plastica rigida e nera, troppo rigida troppo nera, anche per me. Un maiale affettato in ogni sua parte, mi giace davanti, lussurioso e sconcio.
Sono così anche le prostitute nel Red District di Amsterdam, ma con loro non ci casco, con il maiale si!
Sono distratto però, più in là, oltre la carne distesa del martire suino sta un altro maiale. Questa volta vivo, questa volta eretto sulla schiena, ma seduto su di una sedia in legno, color pastello molto più in linea con la mia idea di comodità rispetto alla mia, troppo rigida troppo nera.

Ebbene il Signor D. ha qualcuno da importunare stasera, e non sono io.
Io lo osservo, facendo finta di guardare i quadri alle sue spalle. Non mi piacciono a dir la verità questi quadri e far finta di osservarli mi fa sentire stupido e con un pessimo gusto artistico.

Che poi sono costretto a pensarci, sto leggendo troppi libri sul  buddismo Dzogchen per mentire a me stesso. Serve tolleranza, serve compassione.
Ho studiato latino alle superiori così scompongo com-passione “cum-pato” . Dove “cum” sta per “insieme” e “patior” per “patire” . Ma io il latino lo gestisco come voglio, non sono più al liceo, ora traduco come voglio e come conviene.

“Provare insieme”.

Traduco come mi conviene: “Provo insieme per voi…”
Odio.

Ecco, l’ho detto e lo so che in “cum-patior” non si parla esattamente d’odio in linea di massima, ma sono uscito dal liceo, ora posso.

Provo un odio democratico per voi, un odio che non devo necessariamente capire, mi basta assaporarlo. Un po’ come quando mandi giù il rum Zacapa e ti aspetti che ti ustioni papille, trachea poi budella e invece, un caldo sollievo dolce ti si sprigiona dentro.

Ecco mi aspetto che l’odio mi bruci e invece ora ne provo uno stillo, piccolo e moderato per ognuno di voi.

Il signor D. qualche bicchiere più in là del maiale non me ne voglia, ma stasera sarò compassionevole, a modo mio s’intende, un po’ per uno.

Poi trovo il cane, un bastardo silenzioso, dagli occhi onesti.
Decido di alzarmi e devo roteare sui tacchi, intorno alla sedia come un pattinatore.
Vado in cucina, che è una stanza piccola, vuota di vivi e piena di cose morte, ma sto meglio.

Il cane se ne sta steso sopra la sua umiltà, sopra uno zerbino peloso e imbevuto di sapone per piatti.
Mi piego, porto la sguardo all’altezza degli occhi del cane.
E indovinate?
Il cane fa come me, mi fissa un secondo negli occhi e pare non voler chiedere niente.
Modesto e spaventato in un istante porta le pupille prima altrove, poi piega la testa e poggia lo sguardo alla terra, come se ci fosse molto di più a che pensare tra i peluzzi dello zerbino che in cielo.
E forse ha ragione, io faccio lo stesso.
Nessuno di noi due ci pensa, ma stasera ho imparato una cosa.
Io somiglio più a questo cane modesto, che ai suini seduti di là, sorridenti e un po’ ubriachi, sopra sedie migliori, sedie color pastello.

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