sabato 29 dicembre 2012

Una vecchia Volpe, una vecchia canzone, un nuovo tatuaggio



Va che in questo periodo medito - una volta al mattino e una nel primo pomeriggio - attacco la chitarra al piccolo Vox sfondato, pigio sul bottoncino dell'overdrive, parte il feedback, e medito. Ho un mantra elettrico, io.
E ho sempre la stessa visione.
Sono in una stanza buia, c'è un vecchio armadio di fronte a me. Lo apro ed è vuoto.
Il legno è scuro, coperto di una resina nera, gocciolante, sento odore di benzina.
C'è un foro al centro del pannello di fondo che mi spara sul petto un fascio denso di luce bianca.
Mi avvicino piano e guardo nel buco.
Vedo una camera da letto con una grande finestra che dà sull'ansa di un fiume. Il sole è bianco, lo posso fissare senza accecarmi, in linea perfetta col foro.
Controluce, davanti alla palla bianca, passano, a intervalli brevi, le sagome nere di due uccelli acquatici. Emettono fischi disturbati.
Una figura femminile, con un cappello con le orecchie da volpe, entra in scena dalla parte nascosta della stanza, passa danzando di fronte al mio occhio che fuoriesce gommoso dallo spiraglio. Pigiando un po' con la testa, il mio bulbo oculare si sporge sempre di più dalla fessura, facendo il rumore di uno scarafaggio schiacciato.
Anche lei è controluce, tranne che per una parte della coscia sinistra, illuminata dal riflesso dei raggi che rimbalzano su uno specchio, credo, appeso sopra il foro da cui la spio.
Vedo bene sull'interno della sua gamba, bianca come ceramica, un tatuaggio. Raffigura un uomo che piange accasciato sul gigantesco piede di un antico colosso di pietra. Il colosso non c'è, solo il piede è testimone della rovina, delle lacrime, che rotolano brillanti sul grosso alluce senza pulirlo.
Lo vedo bene, il tatuaggio, quando danza sollevando la gamba sinistra, su una musica lontana di fisarmonica. Non è un tango, è più una ballata.
A questo punto, ogni volta, l'occhio comincia a dolermi. Poi il dolore si traduce nella sensazione calda di una goccia di sangue che mi solca la guancia. Mi stacco lentamente, l'occhio resta lì, incassato nel legno sporco. Continuo a vederla ballare, è silenziosa, se non per qualche respiro più forte, e per lo scricchiolio delle travi del pavimento di legno. Contrasta un po' con la musica, il rumore delle vecchie travi, rende tutto così reale. Sento di guardare una scena profondamente privata. Sono eccitato.
Mi tocco l'orbita vuota, ma non inorridisco. Mi sento bene. Prendo una sigaretta e me la infilo in bocca.
La vedo che continua a danzare.
Come accendo il fiammifero riesco a sovrapporre l'immagine della fiamma nel buio a quella della stanza assolata. Il sole diventa rosso, pian piano, gli uccelli si incendiano in volo.
Lei continua a danzare.
All'improvviso è molto caldo. Non respiro bene.
Sto bruciando.
Le fiamme mi avvolgono.
Il dolore mi libera, non devo più respirare.
Mentre io brucio, lei continua a danzare.
Quelle orecchie di volpe seguono i movimenti ritmati del collo e tracciano immagini nell'aria gassosa, come fossero i nastri di una ginnasta.
Mentre il fuoco si sta mangiando tutto il mondo, lei continua a danzare.
Mentre muoio di là, per tornare di qua, lei continua a danzare.

Mentre lascio la mia visione, lentamente, lei continua a danzare.
Sono tornato, e so che lei continua a danzare.
A volte chiudo gli occhi e la vedo danzare, ma ce li ho entrambi.
Dov'è il terzo.
Cos'è il terzo.

                                                                     *                   *                   *

Cara Volpe,

Mentre venivo da te, ieri, stavo ascoltando Where do You go to (my Lovely), che attacca con la fisarmonica, e fa così:

"You talk like Marlene Dietrich
And you dance like Zizi Jeanmaire
...
"

Non voglio dirti che ti pensavo mentre la ascoltavo, perché non è del tutto vero, e poi va a finire che ti monti la testa.

Però, prima, su quel prato, quando eravamo sdraiati in mezzo agli olivi a guardare le nuvole, ad un certo punto ti sei tirata su in piedi e hai fatto quei due passetti di danza, e io avevo in mente Where do You go to (my Lovely) di Peter Sarstedt, e tu ballavi su quella canzone, almeno nel mio cervello.
Poi ti sei fermata, hai tirato su la gamba destra, e col piede poggiato sulla guancia mi hai chiesto imbronciata se eri brava come Zizi Jeanmaire. Be', non lo eri. Neanche un po'.
Io mi canticchiavo in testa Where do You go to (my Lovely), e tu non potevi saperlo.

Però lo sapevi.
Ecco perché ero lì che ti fissavo, di gesso. Non era perché ballavi bene.
Non mi piace come balli.
Insomma, la prossima volta, stai più attenta a quello che dici.

Vale,

S.

Poscritto: Comunque eravamo in fabbrica e hai menzionato Zizi a proposito del taglio di capelli che volevi farti. O ho sentito male, con tutto quel rumore di torni e frese e presse? Non ha importanza.
Ma la fabbrica è sempre brutta, e gli olivi sono quasi sempre belli. Un po' come te (brutta) e Zizi Jeanmaire (bella).
E poi, voglio dire, se fossimo stati davvero sdraiati vicini su un prato, ti saresti messa di sicuro sopra una merda di cane.

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