La dimensione è quella del sogno, o del ricordo. Sta
di fatto che tutto è in bianco e nero o meglio, i contrasti, non sono così tanto
accesi, tutto è avvolto da un leggero grigiore e la luce è molto tenue.
Mi ridestavo dall’oblio nero. Stavo ancora ad occhi
chiusi e la testa si appoggiava laterale, cullata dalle pieghe calde del
cuscino morbidoso…oso…oso. Non troppo distante dalle labbra, il pollice
sinistro giaceva ancora morto, affogato da una saliva ormai ispessita e
infreddolita.
Mi svegliava
un bacino, di quelli piccoli, piccoli, che hanno la leggerezza propria del loro
suono a contatto con un guancia di fanciullo beato, che profuma di notte. Si
allontanava lesta e veloce la cara ombra, illuminata di spicchio da un giallo
ocra meno caldo ma forse più curioso del mio letto. Sapeva di panni a
sciorinare, di bucato candido e di pelle morbida e pulita, dolce di natura.
Addensata al centro della cameretta svaniva via, ombra dell’ombra e filtrava
adagio, lontana, attraverso lo spiraglio della porta. Avrei voluto fluttuare
anch’io dietro quell’essenza di fiore di loto, di principessa d’Egitto, e
infilarmi alla base del collo, sotto la nuca, sotto la miriade di capelli
sottili e biondi, vivere per sempre solo di quel profumo.
Il caldo mi
tratteneva nel mio lettino, dentro la conca accogliente, calco del mio
corpicino, e mi rilassava di nuovo, mi abbandonava mi addormentava.
Con gli occhi chiusi le due piccole narici si
muovevano ad intervalli, come quelle di un formichiere vicino al suo pranzo, e
assimilavano goccioline di vapore nero, tostato, ridestato dalla luce del
mattino. Quel sapore dell’aria m’incuriosiva, mi rassicurava e mi faceva
voltare, finalmente reggere il pesante e goffo gigante di piume con il braccio
al vento, alzarlo e toglierlo da sopra le gambine teneramente ossute, dal
piccolo torace diaframmaticamente ritmico.
Era davvero un gioco stropicciarmi la minuscola
canottiera di cotone mentre a piedi nudi, scosso da un brivido di freddo,
dondolavo le zampine ai piedi del letto.
Era divertente schiacciare i paffuti e rotondi piedini sopra le
freddissime mattonelle di marmo chiaro, scoprire quella più fredda, saltellare
dall’ una all’altra. Col sorriso lievemente abbozzato sapevo già a quale altezza
e sopra quale termosifone di ghisa, color panna, avrei scoperto la mia
camicetta a quadri rossi bianchi e blu, riscaldata. Era rinascere indossarla,
era il regalo d’ essere un piccolo cucciolo fortunato, passare braccino per
braccino dentro il vestito, sentirne il profumo di cotone asciugato, fresco e
balsamico allo stesso tempo, serrarmelo al corpo bottone bianco per bottone
bianco, capace di farlo da solo, sentire il cuoricino pulsare frenetico, sotto
la canottiera, sotto la pelle, dentro i polmoni.
Trotterellavo basso verso la cucina cercando di
scoprire tutte le volte, come ogni mattina, se dalla mia visione più bassa di
tutti gli altri, diversa, si potesse scoprire un’imperfezione, un avvenimento
che potesse farmi ridere o far ridere. Guardare e tentare di sorprendere in
ogni antro oscuro che si affacciava sul corridoio, magari un piccolo topolino
che faceva pipì o un armadio furioso che diceva parolacce o una telefono che si
grattava il sedere. Non succedeva mai nulla che non avessi già visto, eppure la
realtà non era quella che vedevo, io ci credevo sul serio e una mattina avrei
scoperto qualche stortura e avrei riso, riso a crepapelle.
Balenavo in cucina, colla nuca stropicciata all’altezza
del tavolo rotondo, smaltato d’avorio, e fantasticavo su cosa ci poetesse stare
sopra. Vedevo solo una cravatta dondolante, imponete e sentenziosa, a righe
spesse, bianche blu e rosse, ne osservavo la punta che verso il basso giocava
con me, m’indicava dove sedermi o cosa bere o dentro quale barattolo di
marmellata intingere il pollice appiccicoso. Era divertente. Era uno spasso
quando sfiorava il cappuccio della locomotiva grigia, dal fumo energico,
profumato di chicchi neri, seccati al sole. Attendeva al centro del tavolo,
alla stazione fiocchi d’avena, spesso percorreva rotaie del cielo e
vorticava tra cattedrali di latte caldo, torri di cioccolato in polvere, grattacieli
di fette biscottate e teatri di zucchero di canna. Era uno schianto essersi
svegliato, continuare a ridere e a giocare. Non era finita lì, sarei andato
dagli altri bambini, avrei sognato con loro tra poco.
Ero piccolo. Ero felice.