Caro amico mio.
Cominciando con queste banali parole vengo meno ad alcune
promesse. Per prima cosa avrei dovuto scriverti prima, in secondo luogo ti
avevo accennato che avrei scritto sotto i fumi di un buon vino durante un
sabato notte e invece sono qui alle nove e mezzo del mattino completamente
lucido. Avrei dovuto anche ordinare le
idee e progettare qualcosa di schematico ma più passano i giorni e più gli
inquadramenti vengono meno. Opterò per
un più veritiero flusso di coscienza. Metto un segnalibro rosso e blu
intarsiato di una bella scritta “In biblioteca perché c’è il futuro della tua
storia” al mio libro di latino. Ferisco il manuale di autori alla pagina
duecentosettantasette e abbandono Lucano con le sue speranze trucidate. Chiudo.
Zap. Uno splendido
sorriso femminile, è la ragazza del bar.
Esco dal portone di legno massello e lei esce dal suo di cristallo, mi chiama e
non vuole nulla. Parliamo del nulla e ci salutiamo scomparendo, evanescenti,
puri. Ha i capelli castani gli occhi attenti e il viso dolce da bozza di
cartone animato. Credo che le sarebbe piaciuto interpretare una principessa Disney ma è solo un mio pensiero che rimbalza al momento su questi tasti.
Zap. Sono già sopra il sellino nero, strappato in una
piccola parte. Si vede bene il giallo dell’adipe all’interno, cioè della gommapiuma. Pedalo a passo lungo e
ruoto sopra lastricati scuri, botteghe deserte, mi saluta il cartolaio, mi scrutano
torvi gli insicuri e arrivo dove regnano le auto. L’ora è tra le più aride, un
tocco dopo il meriggio e m’innalzo su per la salita, continuo a pedalare, non
penso e non fatico, il sangue mi pulsa nelle tempie allo stesso tempo della
pedalata che comincia a perdere un po’ della sua giovane energia. Sono in cima,
alto, molto affaticato? Vivo il sudore
di Sisifo con i miei massi sulla schiena dentro una tracolla azzurra, serrati
da una zip.
Zap. Non ci sono più vetture, c’è un signore anziano che
passeggia verso di me distinto, con occhiali da sole sportivi, mi saluta sotto
la sua passeggiata ombrosa di tigli. Pedalo ancora verso il fiume, la calura è
meno arida e più lussureggiante. Verde, riprendo ora io la speranza che perse
Lucano. Traballo a scatti prima di abbandonare il mio mezzo, lo seppellisco tra
il grano nero dal lungo stelo e scendo giù al torrente. Sisifo mi ha lasciato
ancora il sasso sulla schiena, ho scarpette di tela scura leggera e non sono stabile
nella discesa fangosa. Mi tengo forte e curvo come un primitivo alle radici
esposte e ad uno straccio di corda messo lì da chi, crede forse, ancora, nella
solidarietà. Sono nel letto, isolato, non c’è campo, levo la borsa e la maglia
così velocemente che non mi rendo conto che cosa mi sia tolto prima.
Solo. Scorre una luce limpida e tiepida, passa sotto di me, a destra a sinistra. Riesco a capire che tutto sommato, è tiepida e limpida. Basta, subito mi rivesto e risalgo in superficie, riprendo la bici e risistemo i capelli. Afferro e rilascio cadere a terra la mia più vera amica di questi giorni. Una strana figura mitologica dal grande occhio giallo le mani metalliche e la pelle che si scalda al sole fino a scottare al tatto. Sta al mio fianco e mi parla in una lingua antica che sa più di cigolio di cerchioni che di sussurri. Eppure comprendo che mi consiglia di cigolare.
Zap. Lo spezzatino assorbe il
suo sugo, ormai tutti i quadretti di zucca gialla si sono disfatti insieme alle
cipolle, c’è una bella luce accogliente sopra la terrina di coccio amaranto,
tutto intorno c’è profumo d’impegno ricompensato. Ripenso che una volta i ragù,
anche se questo è uno spezzatino, si preparavano con molti tipi di carne di
animali diversi, anche con scarti ricchi di grasso come ad esempio il collo o
le zampe di gallina. Io non ho cucinato un ragù e comunque
le zampe di gallina le ho lasciate alle radici degl’occhi dei miei commensali.
Tre quattro cinque solchi da una parte e dall’altra nella pelle secca.
Zap. Non mi diverto più,
nemmeno nel paese dei balocchi. Ho ginocchia snodate e vado a ritmo. Racconto
storie a figlie che ho appena catturato. Non ci riesce chi ancora spera e ci
riesco io? Io che ho smesso di temere e quindi di sperare. Passeggio tra
capelli affumicati e sopra moquette alcolizzate. Non mi faccio più ridere e qui
non riesco a capirci più niente. Mi viene a recuperare lei, è bellissima ed arrabbiata nera. Lo sarei
anch’io. Si sono rovesciati quei valori
tradizionali, lasciamo stare le carrozze e i cavalli bianchi ma ora è lei che
passa a prendere lui nemmeno a mezzanotte ma alle tre del mattino.
Zap. Ho compreso il tuo abbraccio
in quella spelonca stroboscopica nella città barbara. Ho spalle più larghe di
te eppure sprofondo nella tua camicia a nido d’ape, quadretti verdi e rossi,
odorosa, stordita, spaesata. Ho capito i tuoi polpastrelli smaniosi ed eccitati
al centro perfetto tra le mie due scapole alate. Una splendida camicia che
respira ampia e piana. Ho capito che questa lagnanza te la invierò di notte
perché forse c’è meno traffico o forse di più ma è sempre e comunque più
romantico.
Pagina duecentosettantotto.
Zap.
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