Nobody wants to die.
People, don't mind being dead.
Being dead is great.
But getting dead...
Nobody wants to get dead.
George Carlin
Lo Xanax. È nel cappotto, di là. Ci son tutti, di là.
Devo restare qui, ancora un po’. Qui è sicuro. Tutti quei bambini, non posso,
metteresti in difficoltà i genitori. Non posso farti andare. Che direbbero ai
loro figli? Eh? Il tuo posto è qui. Come glielo dicono, che stai male? Ai figli
non si parla mai di questi problemi, che poi
gli vengono, crescendo, ai figli. Devono dirgli che ho la febbre, se la berranno. E poi, cos’hai? Eh? Cos’ho? Non lo sai, vero? Dai, che
invece se ti sforzi, solo un pochino, ce la fai a capire che è quella dolcezza
inquieta che t’è piovuta in petto un decennio fa, oramai, eh?, è uno
stagnaccio verdone, eh?, ti pare di vederlo, eh?, di sentirlo, perfino. Annusalo.
Quell’airone, maledetto, dovevi ucciderlo. Tutta quella
storia dell’animale totem, ma fammi il piacere. A quell’airone bisognava
sparargli, hai ragione. Una fucilata. Per non parlare poi che tu sei un ornitofobico, dimmi
te se un uccello grande in quel modo avrebbe mai potuto portarti da qualche
parte. L’hai mai visto da vicino, un airone? Quegli occhietti rossi, piccoli
come centesimi, truccati ai bordi di blu scuro, con in mezzo quel becco
lungo, appuntito, per cercare nella sabbia larve, lombrichi, immaginalo a
picchiare sul canterano della tua camera, in piena notte, con quel rostraccio
grigio, a cercar le càmole nei pori del legno marcito, e ti sveglia quel tac tac tac tac, ti sveglia lentamente,
e quando ti volti e scorgi quegli occhietti rossi, che rifrangono la luce blu della
radio sveglia, allora ti irrigidisci e digrigni i denti, di scatto, appena
sfiorato dalla punta del fioretto al centro della schiena, e lui fa scattare quel collo
lungo nella tua direzione, non ce la fai a urlare, non respiri nemmeno, c’è un
airone in camera tua, ma fai un rantolo, perché la paura t’ha preso per la coda
con una mano e ti tappa la bocca con l’altra, e ti trascina via, piccolo sorcio impaurito che non sei altro, e quando stai per svenire, quell’uccello alto
come un bimbo di tre anni sui trampoli, truccato da pagliaccio, con gli occhi
cerchiati di blu, con un nasone lungo un palmo, appuntito, quel bimbo, che
sembra un airone, è un airone, si spaventa e prova a volare, è adesso che urli
forte, ma la porta è chiusa, e la finestra pure, e tu muori, muori dalla paura,
urlando, perché con quelle ali gigantesche sbatte ovunque, e ti cade addosso,
ti piomba sul petto, si dimena, con quelle alacce lunghe, infinite, due mezzi aquiloni
fatti di muscoli e pelle e piume, e mentre le sbatte senza logica, cercando di tirarsi su
in piedi, graffiando con le unghie delle zampacce la coperta, ti pare di udirlo anche adesso quel rumore scraff scraff scraff scraff, ti pare di vedere un uomo alto, possente, una figura familiare, tiene
fra le mani nodose un telaio di ossa, triangolare, e con calma, con perizia, consultando un manuale, spennella
sul reticolo la colla e vi adagia sopra i muscoli, di nuovo la colla e la pelle gialliccia, ancora la colla e copre tutto
con delle piume, avvicina la creazione alla lampada del tavolo da
lavoro, con le manone lisce, da impiegato, preme sui muscoli, fa attenzione che s'attacchino bene, guarda serio da dietro gli occhiali se c’è qualche imperfezione, è
calmo, si pulisce una mano sul camice, è pronto ad assemblare l’uccello
trampoliere, dopo aver costruito l’altra ala, lo stesso trampoliere che si
sbatte indemoniato sopra il tuo petto, adesso, o quand’è, mentre tu muori dalla
paura.
E mentre muoio sento la puzza della palude.
Il tuo animale totem, eh?, che vola elegante, elegantissimo?, da lontano pare pulito, eh?, da lontano. Com'è che dicevi?
Solo il volo del suo airone lo illuse che esisteva una via di fuga. Con il collo piegato all’indietro guardava in alto quelle ali remare l’aria, e si sentiva come un soldato lasciato indietro dai compagni, e vedeva la bestia come un civile che non parlava la sua stessa lingua, mentre tutto intorno è macerie e budella, che gli passava accanto imperturbabile e sicuro, figura angelica, indicandogli la via, insegnandogli la fuga, in silenzio. Era la sua guida - unico superstite indigeno del paese distrutto - doveva esserlo per forza.
Ma fammi il piacere.
Non senti la morte, vero? Vero che non la senti, la
morte? Come quella volta che avevi le fitte lancinanti al petto, te le ricordi,
le fitte? Con Alfredo, stavi parlando, e sentivi quelle fitte. Forti. Degli
uncini. E pensavi: dopo muoio e Alfredo dirà agli altri: eh, son l’ultimo a cui
ha detto qualcosa, a parte i clienti, non mi ricordo che cosa, perché non si
parlava di niente, sapete quei discorsi che si fanno al lavoro, ci lavoravo
insieme, ma chi era davvero, io non lo so proprio. Comunque, niente, ragazzi,
mi parlava, e niente, si tastava il petto e aveva questa tosse secca e stizzosa, di continuo, e deglutiva nervosamente, di continuo. Io lo vedevo che non
stava bene, era bianchiccio. Era distratto.
Poi gli ho detto, dai, dopo ci facciamo un Campari, al bar, con gli altri, così non ci pensiamo. E lui mi ha detto che
sarebbe venuto senz’altro. Oh, ragazzi, cavolo, ma si vedeva che era distratto, si vedeva bene. Stava male,
che disgrazia, a quest’età. Il cuore. Eh, ma quando ti chiamano c’è d’anadar
su, e di corsa, che non ti aspettano nemmeno per cambiarti le mutande. A quel
Campari non c’è mai arrivato. Non ci
pensa più davvero, adesso. Beato lui. È tornato alla scrivania, ha messo le
cuffie, si è posizionato il microfono, e niente, l’abbiamo ritrovato un’ora
dopo. Con quei separé di compensato non c’eravamo accorti di niente. Era lì,
vivo, per noi era vivo. Ma forse era
morto. Stava vendendo il nuovo piano tariffario, capite?, un piano
tariffario. Un morto che vende il nuovo piano tariffario Free life. Un morto che vende Life.
Poi non rispondeva. Il cuore. Che tragedia. Per fortuna non aveva figli. Magari
era morto anche l’altro, di là dal cavo, e magari l’ultima cosa che aveva
sentito era: con il nuovo piano tariffario Free life può
avere subito uno smartphone a soli 25 euro al mese. Capite? Eh? Te lo ricordi
che pensavi a tutto questo, ad Alfredo che diceva tutto questo, a te piccolo
piccolo nella grossa bara con la sciarpa della Juve fra le mani, grigiastro, rigido, trattato come
un bambola di legno, svuotato degli organi buoni. Il chirurgo che ti
sviscera, e prende il tuo fegato fresco, ne strizza via il Martini, lo posa nella borsa frigo.
La macchina corre veloce, sballotta nelle curve, le sirene che
svegliano i bimbi che piangono nelle culle calde, i cani che abbaiano nelle
cucce nei giardini, con la testa fra le sbarre delle ringhiere dei balconi, la
sirena urla, tutti strillano e abbaiano al passaggio del tuo fegato.
Lo Xanax. È nel cappotto. È di là, mi vedrebbero tutti in
queste condizioni. Proverei a dir loro che sto bene, sì, vedendoli avvicinarmi
con aria preoccupata, che sto bene, dev’essere la mia dieta, mi alimento male,
vedrai, con un bicchiere di vino, vedrai, mi rimetto in piedi, mi stendo sul
divano e mi rimetto in piedi, aspetta, porta di là i bambini, che s'impressionano, fammi sbottonare il colletto, aspetta,
non toccarmi, lasciami, aspetta, dì a tuo figlio di star buono, aspetta, datemi
aria, penserei. Penserei queste cose per dirle, ma non ce la farei, con questa
lingua gonfia, poi!, è più grande, la lingua, lo senti che è cresciuta, sembra
quella di un gatto, secca, ruvida, e l’ugola, cristo di dio!, è grassa che un
gatto ci mangia una settimana intera, e non riuscirei nemmeno a sentire che mi
dicono, di là, spegnerebbero la musica, anche. Tutti quegli occhi su di me.
Senza musica, per colpa mia. Con quelle facce serie, maledizione. Eh? Non vi
sento, vi dico che non vi sento, perché il cuore e il ronzio nelle orecchie e
tutti i pensieri che si intrecciano e che si graffiano sui corpi nudi, nascosti,
in quell’ombra melmosa. C’è un buio bianco, qui in bagno, è un buio pulito. Che rumore
dappertutto. No, è dentro, dappertutto. È tutto dentro. Stai tranquillo, è
tutto dentro, falli star dentro. Non c’è modo che escano, devono calmarsi, è
che devono farlo tutti insieme. Non posso uscire ora. Devi star dentro, qui
dentro. Guarda, come son bianco. Chissà vedermi da fuori, ora, chissà vedermi
da dietro, guardare il riflesso sullo specchio, avvicinarmi a me, posarmi una
mano sulla spalla, da dietro, in silenzio. Farei un salto, tutti i capelli
bianchi dalla paura, le gambe mi cederebbero, un urlo che dalla nuca mi
attraverserebbe il cervello come uno stiletto arrugginito, e fuori dal naso e
dalla bocca, acuto come il diamante sul vetro, grave come una lastra d’alluminio
che cade da un camion in corsa, e sull’asfalto ondula, prima di appoggiarsi e
strisciare scintillante, e fa il gorgheggio di un monaco tibetano con le fauci
lunghe dieci metri l’una, le corde vocali si spezzano, le tonsille esplodono,
sangue dai buchi, sputato qua e là, anche sulle mie scarpe, che stanno lì
davanti a me, e io dentro quelle scarpe, alto su di me, lì sopra a dirmi, guardati,
vedi, lo specchio ti deforma. Qui, guarda. Col ditone unto sullo specchio. Lo
vedi che non sei così. Sei deforme, non sei così. Te lo
dico io. Lo specchio mente. Guarda la tua bocca, storta, che smorfie fai?, hai
paura?
Sei piccolo piccolo.
Guarda.
Guardati.
Guardati da me.
Guardati da te.
Piccolo sorcio spaurito.
Guardami, però.
GUAR
DA
TI
Ma fammi il piacere.