giovedì 31 gennaio 2013

Potassio


Scrivi, scrivi mi dico.
Ho già smesso, mi alzo dalla poltrona da ufficio con le rotelle nere e vago. Ritorno a sedere.
Mi rialzo senza più un respiro e con molta acqua nel cervello.
Riprendo a scrivere ora. Vedo e sento i miei passi nella ripetizione della monotona passeggiata che disegna l’infinito, chiuso, dentro mura domestiche. Alcune finestre con la protezione di persiane seghettate sono spalancate indifferentemente per puro gusto personale. Altre sono chiuse con cognizione di causa anche se ho il respiro affannato e il cuore pesante per questa cruda verità.
Devo rendere l’idea dello spettro, devo creare la mia immagine accidiosa, nascostamente manifesta. Al limite dell’ossimoro lo sanno che sono qua dentro, che ramingo in questo spazio pieno di foglie secche e fiori caduti accumulati a mucchietti, simili a formicai artistici. Lo spettro lo sai che ci abita ma non lo vedi. E in effetti non mi vedono. Nessuno mi vede.
Nemmeno la vicina anziana che ha una procace voglia di parlare , non con me, non mi vede, ma con l’altra vicina anziana, che non ha più voglia.
“Ho delle albicocchine talmente piccine ma così dolci! E poi il potassio fa benissimo!”. E si, diamine, il potassio fa benissimo alla sua età.
Sono solo flussi di immagini spezzettate che cadranno in fondo al canterano dimenticato, che si legano alchemicamente a respiri strozzati e affanni del cuore.
Indosso abiti scuri che mi coprono solo il busto, per il resto scivolo silenzioso e spento, nudo con le ossa femorali sporgenti e la mia ingombrante protuberanza maschile che ricorda la coda nodosa di un macaco.
Nel mio navigare ondulato che non spuma e non scia m’imbatto in epifanie metodiche e ricorrenti.
Annaffio il vaso eretto di basilico appena credo di intravedere il tenue appassimento di una sola minuta fogliolina. Nello scrosciare dell’abbondante acqua che gli dedico m’inondo di un profumo basilare che mi irrobustisce le braccia e il petto. Mi scolpisce le spalle, sicure e piazzate.
Rintoccano le campane ad ogni ora e il tocco futuro è indubbiamente identico a quello passato e ho la sensazione di come questo tempo sia uguale a quello di prima e di prima e di prima ancora, l’ineluttabile staticità di una campana che finge di muoversi. Dalle spalle vedo le gambe rinsecchite, pallide, sporche,  avvizzite che umilmente ti porgono su di un vassoio d’argento la natura intrinseca: un osso duro e scialbo che infilza la carne fino a spuntare fuori, rivestito di setole nere sbiadite.
Terrore nell’ insistenza del campanello d’allarme che trilla. Qualche temerario è alla mia porta, vuole vedermi, vuole interagire, vuole prendere contatto con il mostro che ha già un pugnale conficcato nel diaframma per lo spavento.
Sarà un venditore ambulante, che esperto di spettri non si vergogna più di poter racimolare qualcosa anche con loro.
Mi rifugio in una fame astiosa che cerca di ricacciare fuori il pugnale che sanguina oleoso nello stomaco.
Cerco nel cassettone più in basso dell’armadio frigo l’ultimo boccone di frutta non ancora imputridita.
Mi ritrovo goffo nella massa poderosa dei mie arti superiori a mangiare banane, guardando spocchioso i mie inferiori stecchi di marmo e inorridito la mia vomitevole coda anteriore.
Regredisco antropologicamente allo spettro della scimmia accigliata e malvagia che abita nella mia dimora, dentro di me, ingerendo potassio, che entra nelle fauci come un flusso di orina calda, dolcissimo e che fa benissimo.

lunedì 21 gennaio 2013

Oltre la morte i tuoi occhi.





Oltre la siepe dei corpi
avvinghiati come radici umide,

i tuoi occhi.


Oltre cespugli di carne malata,
le mani veloci e le lingue,

i tuoi occhi.


Cadono sorrisi come stelle fredde che non mi colpiscono,
la scia gelida lasciata dietro è la mia riserva d’aria.

Si scrive meglio d’inverno infatti
quando non si trova il sole                                        e il buio aiuta a cercare le cose che non si vedono.

L’estate languisce il cervello a bagnomaria
nel sudore di pochi pensieri.

Ma oltre i pensieri
i tuoi occhi

                                                            ma oltre la morte
                                                            i tuoi occhi.


domenica 13 gennaio 2013

Bonsai


Sono le 15.49, già le 15.50 e butto giù qualcosa.
Guardo fuori dalla finestra e come già una volta sta piovendo. C’è poco da dire in effetti e nemmeno troppa ispirazione, piuttosto una languidezza viscerale che sono certo non dipende da una qualche musa,divinità del genio e dell’inventiva . Ho abbandonato i miei libri qui accanto a me sul tavolone di vetro con le gambe in ferro battuto. Sono nel salone al piano di sopra e cerco di descrivertelo minuziosamente perché non so più se te lo ricordi. C’è un divano color panna in pelle, comodo d’inverno ma troppo appiccicoso d’estate. Ci sono tanti libri in gabbia, quelle di legno alle pareti. Ci sono cappelli militari sopra le gabbie  (scommetto che uno sia anche un tuo regalo) e tanti morti stecchiti appesi che non parlano non si muovono ma troneggiano e come facciano io, me lo chiedo ancora. Vedo i miliardi di colori incastonati nel tappeto attraverso lo scorcio che disegnano le mie cosce impigiamate e i piedi pantofolati. Ed eccomi qua amico mio, sono qui, forse anche un po’ ingobbito ma è l’unico modo per sentirti,vederti o parlarti: c’è sempre bisogno di un maledetto schermo che ci divida. Che sia window, oppure una finestra oppure un cielo spento oppure i tuoi limpidissimi occhi. C’è una sottile linea di confine tra me e te. 
Le 15.59, già le 16.00 e piove ancora.
Ma è primavera qua. Tutto nuovo, nuovi odori, nuovi profumi pioggia nuova e funghi nuovi. Studio in una biblioteca, si qui al villaggio, anch’essa nuova splendida, luminosa struggente. Posso scendere pure in strada a prendermi un caffè in un bar di fronte. Nuovo, luminosissimo dai sorrisi nuovi e speranzosi, con prezzi nuovi con l’iva nuova al 21%. Tutto più nuovo. Eppure sono profumi che ho già sentito e questa pioggia mia ha già bagnato. La biblioteca sarà pure  nuova ma il palazzo reca la targa XV sec. e qualche dubbio me lo fa salire alla mente. Il bar è ristrutturato ma a quel circolo ha già servito mio padre quand’era ragazzo e forse chi lo sa, anche il padre di mia madre.
Sono le 16.06, già le 16.07 ed ha smesso di piovere.
Posso alzarmi e tornare ad affilare quei libri, i pilastri di quella costruzione a cui sto lavorando da un po’ di tempo in riva al fiume. Scorre in piena e lì sull’argine sono affaticato dal selezionare e scegliere e di nuovo affilare i primi pali che pianterò per terra, per erigere quella costruzione dove mia moglie accudirà i piccoli e si fiderà ancora una volta di me. Ho solo un bel contenitore, un vaso con buona terra umida. Ma si seccano i bonsai nella casa che non ho.
Mentre il fiume è in piena e tutto scorre. Sono le 16.10 già 16.11

mercoledì 9 gennaio 2013

Il pianto e il cognac.


Il cognac è freddo,
ne resta poco, e quel che rimane sublimerà.

Sulla scia lasciata dalle mosche incredule
che attraversano il fumo dell’incenso,
mi distendo
lungo
di gambe e pensieri.

Sto bene in bilico sul filo con sotto il tracollo
che mi sorride e aspetta,
ma non c’è fretta dentro agli occhi
solo qualche goccia
in tensione
tra la palpebra e l’orbita.

Borbotta il termosifone
parole di morte senza lotta:
“Anche il pianto sublimerà
così come il cognac”.

domenica 6 gennaio 2013

Funk


Nobody wants to die.
People, don't mind being dead.
Being dead is great.
But getting dead...
Nobody wants to get dead.

George Carlin



Lo Xanax. È nel cappotto, di là. Ci son tutti, di là. Devo restare qui, ancora un po’. Qui è sicuro. Tutti quei bambini, non posso, metteresti in difficoltà i genitori. Non posso farti andare. Che direbbero ai loro figli? Eh? Il tuo posto è qui. Come glielo dicono, che stai male? Ai figli non si parla mai di questi problemi, che poi gli vengono, crescendo, ai figli. Devono dirgli che ho la febbre, se la berranno. E poi, cos’hai? Eh? Cos’ho? Non lo sai, vero? Dai, che invece se ti sforzi, solo un pochino, ce la fai a capire che è quella dolcezza inquieta che t’è piovuta in petto un decennio fa, oramai, eh?, è uno stagnaccio verdone, eh?, ti pare di vederlo, eh?, di sentirlo, perfino. Annusalo.
Quell’airone, maledetto, dovevi ucciderlo. Tutta quella storia dell’animale totem, ma fammi il piacere. A quell’airone bisognava sparargli, hai ragione. Una fucilata. Per non parlare poi che tu sei un ornitofobico, dimmi te se un uccello grande in quel modo avrebbe mai potuto portarti da qualche parte. L’hai mai visto da vicino, un airone? Quegli occhietti rossi, piccoli come centesimi, truccati ai bordi di blu scuro, con in mezzo quel becco lungo, appuntito, per cercare nella sabbia larve, lombrichi, immaginalo a picchiare sul canterano della tua camera, in piena notte, con quel rostraccio grigio, a cercar le càmole nei pori del legno marcito, e ti sveglia quel tac tac tac tac, ti sveglia lentamente, e quando ti volti e scorgi quegli occhietti rossi, che rifrangono la luce blu della radio sveglia, allora ti irrigidisci e digrigni i denti, di scatto, appena sfiorato dalla punta del fioretto al centro della schiena, e lui fa scattare quel collo lungo nella tua direzione, non ce la fai a urlare, non respiri nemmeno, c’è un airone in camera tua, ma fai un rantolo, perché la paura t’ha preso per la coda con una mano e ti tappa la bocca con l’altra, e ti trascina via, piccolo sorcio impaurito che non sei altro, e quando stai per svenire, quell’uccello alto come un bimbo di tre anni sui trampoli, truccato da pagliaccio, con gli occhi cerchiati di blu, con un nasone lungo un palmo, appuntito, quel bimbo, che sembra un airone, è un airone, si spaventa e prova a volare, è adesso che urli forte, ma la porta è chiusa, e la finestra pure, e tu muori, muori dalla paura, urlando, perché con quelle ali gigantesche sbatte ovunque, e ti cade addosso, ti piomba sul petto, si dimena, con quelle alacce lunghe, infinite, due mezzi aquiloni fatti di muscoli e pelle e piume, e mentre le sbatte senza logica, cercando di tirarsi su in piedi, graffiando con le unghie delle zampacce la coperta, ti pare di udirlo anche adesso quel rumore scraff scraff scraff scraff, ti pare di vedere un uomo alto, possente, una figura familiare, tiene fra le mani nodose un telaio di ossa, triangolare, e con calma, con perizia, consultando un manuale, spennella sul reticolo la colla e vi adagia sopra i muscoli, di nuovo la colla e la pelle gialliccia, ancora la colla e copre tutto con delle piume, avvicina la creazione alla lampada del tavolo da lavoro, con le manone lisce, da impiegato, preme sui muscoli, fa attenzione che s'attacchino bene, guarda serio da dietro gli occhiali se c’è qualche imperfezione, è calmo, si pulisce una mano sul camice, è pronto ad assemblare l’uccello trampoliere, dopo aver costruito l’altra ala, lo stesso trampoliere che si sbatte indemoniato sopra il tuo petto, adesso, o quand’è, mentre tu muori dalla paura.
E mentre muoio sento la puzza della palude.
Il tuo animale totem, eh?, che vola elegante, elegantissimo?, da lontano pare pulito, eh?, da lontano. Com'è che dicevi?

Solo il volo del suo airone lo illuse che esisteva una via di fuga. Con il collo piegato all’indietro guardava in alto quelle ali remare l’aria, e si sentiva come un soldato lasciato indietro dai compagni, e vedeva la bestia come un civile che non parlava la sua stessa lingua, mentre tutto intorno è macerie e budella, che gli passava accanto imperturbabile e sicuro, figura  angelica, indicandogli la via, insegnandogli la fuga, in silenzio. Era la sua guida - unico superstite indigeno del paese distrutto - doveva esserlo per forza.

Ma fammi il piacere.

                               

Non senti la morte, vero? Vero che non la senti, la morte? Come quella volta che avevi le fitte lancinanti al petto, te le ricordi, le fitte? Con Alfredo, stavi parlando, e sentivi quelle fitte. Forti. Degli uncini. E pensavi: dopo muoio e Alfredo dirà agli altri: eh, son l’ultimo a cui ha detto qualcosa, a parte i clienti, non mi ricordo che cosa, perché non si parlava di niente, sapete quei discorsi che si fanno al lavoro, ci lavoravo insieme, ma chi era davvero, io non lo so proprio. Comunque, niente, ragazzi, mi parlava, e niente, si tastava il petto e aveva questa tosse secca e stizzosa, di continuo, e deglutiva nervosamente, di continuo. Io lo vedevo che non stava bene, era bianchiccio. Era distratto. Poi gli ho detto, dai, dopo ci facciamo un Campari, al bar, con gli altri, così non ci pensiamo. E lui mi ha detto che sarebbe venuto senz’altro. Oh, ragazzi, cavolo, ma si vedeva che era distratto, si vedeva bene. Stava male, che disgrazia, a quest’età. Il cuore. Eh, ma quando ti chiamano c’è d’anadar su, e di corsa, che non ti aspettano nemmeno per cambiarti le mutande. A quel Campari non c’è mai arrivato. Non ci pensa più davvero, adesso. Beato lui. È tornato alla scrivania, ha messo le cuffie, si è posizionato il microfono, e niente, l’abbiamo ritrovato un’ora dopo. Con quei separé di compensato non c’eravamo accorti di niente. Era lì, vivo, per noi era vivo. Ma forse era morto. Stava vendendo il nuovo piano tariffario, capite?, un piano tariffario. Un morto che vende il nuovo piano tariffario Free life. Un morto che vende Life. Poi non rispondeva. Il cuore. Che tragedia. Per fortuna non aveva figli. Magari era morto anche l’altro, di là dal cavo, e magari l’ultima cosa che aveva sentito era: con il nuovo piano tariffario Free life può avere subito uno smartphone a soli 25 euro al mese. Capite? Eh? Te lo ricordi che pensavi a tutto questo, ad Alfredo che diceva tutto questo, a te piccolo piccolo nella grossa bara con la sciarpa della Juve fra le mani, grigiastro, rigido, trattato come un bambola di legno, svuotato degli organi buoni. Il chirurgo che ti sviscera, e prende il tuo fegato fresco, ne strizza via il Martini, lo posa nella borsa frigo.
La macchina corre veloce, sballotta nelle curve, le sirene che svegliano i bimbi che piangono nelle culle calde, i cani che abbaiano nelle cucce nei giardini, con la testa fra le sbarre delle ringhiere dei balconi, la sirena urla, tutti strillano e abbaiano al passaggio del tuo fegato.



Lo Xanax. È nel cappotto. È di là, mi vedrebbero tutti in queste condizioni. Proverei a dir loro che sto bene, sì, vedendoli avvicinarmi con aria preoccupata, che sto bene, dev’essere la mia dieta, mi alimento male, vedrai, con un bicchiere di vino, vedrai, mi rimetto in piedi, mi stendo sul divano e mi rimetto in piedi, aspetta, porta di là i bambini, che s'impressionano, fammi sbottonare il colletto, aspetta, non toccarmi, lasciami, aspetta, dì a tuo figlio di star buono, aspetta, datemi aria, penserei. Penserei queste cose per dirle, ma non ce la farei, con questa lingua gonfia, poi!, è più grande, la lingua, lo senti che è cresciuta, sembra quella di un gatto, secca, ruvida, e l’ugola, cristo di dio!, è grassa che un gatto ci mangia una settimana intera, e non riuscirei nemmeno a sentire che mi dicono, di là, spegnerebbero la musica, anche. Tutti quegli occhi su di me. Senza musica, per colpa mia. Con quelle facce serie, maledizione. Eh? Non vi sento, vi dico che non vi sento, perché il cuore e il ronzio nelle orecchie e tutti i pensieri che si intrecciano e che si graffiano sui corpi nudi, nascosti, in quell’ombra melmosa. C’è un buio bianco, qui in bagno, è un buio pulito. Che rumore dappertutto. No, è dentro, dappertutto. È tutto dentro. Stai tranquillo, è tutto dentro, falli star dentro. Non c’è modo che escano, devono calmarsi, è che devono farlo tutti insieme. Non posso uscire ora. Devi star dentro, qui dentro. Guarda, come son bianco. Chissà vedermi da fuori, ora, chissà vedermi da dietro, guardare il riflesso sullo specchio, avvicinarmi a me, posarmi una mano sulla spalla, da dietro, in silenzio. Farei un salto, tutti i capelli bianchi dalla paura, le gambe mi cederebbero, un urlo che dalla nuca mi attraverserebbe il cervello come uno stiletto arrugginito, e fuori dal naso e dalla bocca, acuto come il diamante sul vetro, grave come una lastra d’alluminio che cade da un camion in corsa, e sull’asfalto ondula, prima di appoggiarsi e strisciare scintillante, e fa il gorgheggio di un monaco tibetano con le fauci lunghe dieci metri l’una, le corde vocali si spezzano, le tonsille esplodono, sangue dai buchi, sputato qua e là, anche sulle mie scarpe, che stanno lì davanti a me, e io dentro quelle scarpe, alto su di me, lì sopra a dirmi, guardati, vedi, lo specchio ti deforma. Qui, guarda. Col ditone unto sullo specchio. Lo vedi che non sei così. Sei deforme, non sei così. Te lo dico io. Lo specchio mente. Guarda la tua bocca, storta, che smorfie fai?, hai paura?
Sei piccolo piccolo.
Guarda.
Guardati.
Guardati da me.
Guardati da te.
Piccolo sorcio spaurito.
Guardami, però.
GUAR
DA
TI

Ma fammi il piacere.


sabato 5 gennaio 2013

Si compri un gatto per non morire.



Erano le 5 ed Henry era seduto come al solito sulla poltrona, dritta davanti alla tv, proprio dove si incrociavano gli angoli delle due stanze del piccolo bilocale.
Nel lavandino piccole gocce cadevano fino a riempire la latta rotonda di carne in scatola vuota. Minuscole particelle di grasso gelatinoso andavano disperdendosi .
Un giorno come tutti gli altri, uno di quelli che si dimenticano a partire dal mattino successivo, per non essere ricordati mai più.

Henry sudava, fino ad incollarsi quasi alla poltrona, tanto era caldo.
Un estate odiosa quella del ’77.
Si alzò ed erano passate 3 o 4 ore dall’ultima volta che si era mosso, ciondolando pesantemente verso la cucina, per un altro gelato e un’altra soda.

In tv , in uno dei tristi e squattrinati canali locali , un uomo anonimo, vestito a funerale, promuoveva senza troppa credibilità la : “Linea telefonica Anti-suicidi: Evviva la Vita”.

Henry sorrise, il mento sprofondò nella gola ampia e tremula. Affondando per le risate le dita paffute nei braccioli della poltrona.
Era divertito e triste insieme, più triste che divertito, come sempre.
A ben vedere quelle risate apparivano spiacevoli e isteriche, simili a convulsioni.

In sovrimpressione compare il numero della linea telefonica. Henry ci riflette su, sono due anni che pensa fitto alla possibilità di porre fine alla sua noiosa vita di grasso uomo solo.
Con movimenti meccanici e pesanti, allunga il braccio destro, largo come la gamba di un uomo normale. Solleva il telefono e compone a fatica il numero, con le dita che a malapena entrano tra un tasto e l’altro senza schiacciarli entrambi.

Un voce di donna logorata dagli anni e dalle sigarette risponde:
“Linea telefonica anti-suicidi evviva la vita!”.

Dopo una breve pausa Henry, riavutosi dallo sforzo del sollevamento del telefono:
“Pronto. Mi chiamo Henry.”
“Ciao Henry” risponde la donna in maniera fredda e robotica, come quando ci si presenta alle riunioni degli alcolisti anonimi.
“Credo di avere un problema signora..”
“Cindy” fa la voce al telefono.
“Beh Cindy, non credo di avere motivi per vivere.”
“Oh Henry, sa che sono 20’anni che sento queste stesse identiche parole?!”.
Henry dall’altro lato della cornetta respira affannosamente e fatica a credere alle sue orecchie.

“Mio caro Henry, potrei stare qui al telefono ore ed ore a dirti che la vita è una cosa meravigliosa. Ma sono stanca Henry,capiscimi, stanca. Non ho marito né figli, né fratelli o sorelle e i miei sono morti da un bel po’,capiscimi.”

Si sente chiaramente il respiro grasso e singultico di Henry alla cornetta.

“Non una promozione, non un uomo, non un figlio, capiscimi Henry.”

Il ciccione sospira col suo fiato pesante.
Non crede alle sue orecchie, non è questo che si aspettava.
Così Henry trattenendo il respiro attacca il telefono fingendo che questo dialogo non ci sia mai stato.
Il giorno dopo, pressappoco alla stessa ora del giorno precedente Henry, con la soda e il gelato appoggiati alla destra della poltrona, sul tavolinetto mobile di vetro fumé, accende la tv.

“La linea telefonica Anti-suicidi Evviva la Vita, piange oggi la scomparsa della nostra veterana Cindy; Grazie per averci insegnato che la vita è una cosa meravigliosa. Ciao Cindy.”

Il ciccione finisce la soda in una sorsata, il gelato in un morso e pensa:
“Si la vita è una cosa meravigliosa”.

martedì 1 gennaio 2013

Cuochi e ombre.




Un bravo cuoco avrebbe messo tutti a tavola. Lo aveva fatto. Un bravo cuoco avrebbe ignorato la stragrande maggioranza dei complimenti fritti e rifritti. Lo aveva fatto. Un bravo cuoco non avrebbe chiesto aiuto a nessuno, si sarebbe alzato e avrebbe gongolato fino all’altra saletta per preparare la seconda portata, condire il piatto, servirlo bene. Fin qui lo aveva fatto, poteva essere ancora un bravo cuoco. Forse era divenuto anche un ottimo cuoco e poteva concedersi il lusso di un lavapiatti come amico. Erano in due nella cucina, lo sciabordare della sala da pranzo era solo una sinfonia per il cuoco e l’aiutante. Un bravo cuoco avrebbe avuto un ottimo naso e un vista panoramica acutissima che avrebbe evitato incidenti disastrosi. Si confermava ancora un bravo cuoco, aveva riconosciuto quel profumo delicatissimo alle sue spalle provenire da quell’ombra leggera. Era una dolcezza infinita che, a discapito del bravo cuoco, intorpidiva i sensi e copriva tutti gli altri odori. Serrava l’appetito e non permetteva nemmeno un assaggio in più, volavano graziose farfalle nello stomaco e il cuoco, quello bravo, stava perdendo punti nella classifica degl’ottimi.< Hai fatto tutto tu? > Chiese quel profumo.< Si !? > Impastò il cuoco.< Assaggia pure, prendi un pezzettino. >  L’amico aiutante era intervenuto e aveva evitato al maestro d’ impastare ancora. Spinta da una curiosità invisibile un’ombra si era levata dalla sala, aveva volato insieme al fruscio che fanno le ombre e aveva posato il suo più lungo riflesso sulla spalla del bravo cuoco. Con l’altro riflesso aveva assaggiato e costatato e ringraziato e fissato il cuoco dritto negl’occhi.< Che bravo cuoco! > l’ombra era divenuta lampadina ocra penzolante e non c’era più. Un master chef avrebbe accantonato un complimento così banale. Non lo aveva fatto.  Era un cuoco meno bravo. Stava per tagliarsi e l’amico sottoposto sorrideva. Era un cuoco meno bravo. Ma l’esperienza e il duro lavoro spesso aiutano i maestri di cucina ad ignorare, a concentrarsi, e fu così che si rimise in carreggiata. Un bravo cuoco sarebbe stato sommerso dai brindisi, c’era riuscito. Un bravo cuoco avrebbe fatto agognare a tutti i commensali un divano comodo, una luce calda, un digestivo. Aveva quasi vinto. Con alle spalle l’accoglienza del focolare il top del top nell’albo dei cuochi teneva sotto controllo la situazione, constatava la pelle tirata delle pance, scoppiettava di champagne.
Solo alcune cose potevano uccidere la persona e insieme la carriera di quello che fino a questo punto abbiamo chiamato un” bravo cuoco”. Accoccolata a piedi del fuoco, l’ombra sgranocchiava ancora qualcosa. Forse non era sazia o forse era solo smaniosa? Frantumava il guscio delle noci con un piccolo martellino e cesellava con accuratezza infinita i frammenti del frutto, li mangiava. Tutti sulle noci, sul battere, sul martellino. Il cuoco poteva solo dimostrare l’affinità con la materia prima, con il frutto, poterlo aprire con la forza della sua sola mano, mostrarla ad un capo espiatorio, per rimescolare nella mente di tutti la supremazia, l’essenzialità della sua figura. Magari avvicinarsi con dolcezza, proprio all’ombra, strapparle un assenso, un grazie, e farle vedere come si fa, con un mano, o farsi vedere solamente. Aveva stretto e stretto e riprovato. Non c’era riuscito. L’ombra l’aveva distrutto con i suoi specchi di nocciole, le sue labbra di fragole rosse e i suoi arti così belli e deboli come violini di cicale. Non gli aveva detto che sarebbe restato pur sempre bravo e quindi non l’aveva reso banale. Non l’aveva sbeffeggiato e reso ridicolo, iroso e vendicativo. L’aveva accolto nel suo quadro di luce calda e irregolare, l’aveva illuminato con mille sorrisi di zucchero. Era riuscita a mostrargli il fallimento, a renderlo piccolo, a fermargli il tempo, a tenerlo in vita, ancora per un po’.
Non era un bravo cuoco, non era nulla se non ombra.