Io non so disegnare.
Non so fare un sacco di cose che non mi manca saper fare.
Non so fare a pugni. Non so prendermi cura di un orto. Non so suonare il
pianoforte. Non so portare una barca a vela. Non so arrampicarmi su una
pertica.
Ma soprattutto non so disegnare.
Sarebbe bellissimo prendere un treno e sedermi di fronte
a una donna sulla trentina, mora con gli occhi verdi, che legge Carver. Stare
lì col mio blocco in mano e fare lo schizzo del suo viso, perdendo tempo a
seguire bene i contorni del suo mento. Sarebbe importante che non sospetti
nulla, dovrei essere discreto, guardare più spesso fuori dal finestrino invece
che fissarmi sul punto in cui il suo collo lungo e fino – sembra un Modigliani,
quanto è bella – si attacca alla spalla, quella destra, che sarebbe nuda,
perché ci troveremmo in primavera inoltrata, di sicuro. E come sarebbe
difficile disegnare quel punto. Non solo perché è difficile disegnare quel
punto.
Lo finirei, in quanto tempo? In mezz’ora, facciamo
mezz’ora. È solo uno schizzo.
Improvvisamente si alzerebbe. Siamo vicini a una fermata,
penserei, il treno è tanto che non sosta. Ma non scenderebbe, prenderebbe la
borsetta quando il macchinista non ha nemmeno ancora cominciato a rallentare. Andrà
in bagno, può darsi, spererei, e quando s’è alzata con la mano destra si è
allisciata la gonna nera, di seta, sembra, e con la sinistra appoggia Cattedrale lì sul sedile, lo posa aperto,
a pancia in giù per tenere il segno. Uno spiraglio di luce – perché è
pomeriggio e le ruote girano e frizionano i binari imbruniti per mandare il
grosso bruco di ferro verso il sole – la
colpirebbe mentre la guardo camminare nel corridoio.
Si terrebbe in equilibrio con la borsetta appesa
all’avambraccio che dondola e segue i movimenti del bestione, che adesso sembra
che fatichi, e penserei che il treno mi pare sempre così pesante, quasi
svogliato, ma comunque veloce e stabile, in qualche curva presa forte può
ricordare addirittura un cavallo nervoso, ma poi torna a rigare dritto, e
sbuffa di nuovo, come se non volesse, di nuovo animale bonario da soma, ma
tira, dio bono, tira dritto che è una meraviglia.
Poi smetterei di pensare al treno perché quei raggi come acqua
arrivano dappertutto, e sbattono forte sulla sua gonna - che sarebbe nera, sì,
ma come di seta, l’ho già detto – in uno scroscio di barbagli che mi farebbero
intravedere il contorno morbido delle gambe, e l’insenatura liscissima dietro
le ginocchia.
Oh, quel punto! Dio bono, quel punto! Andrei fuori di
testa per un paio di secondi felici. E penserei di fare duecento, trecento,
forse; ma che dico?!, mille, un milione, addirittura; sì!, un milione di
quadri, in un milione di tecniche diverse, e sarebbero tutti rappresentanti
quel punto, quel pezzo di pelle bianca e soffice dietro le ginocchia delle
donne.
La mia mente andrebbe subito a quel mio amico, uno
stregone, che aveva un amico, in Brasile, a São Paulo, che per tutta la vita ha
disegnato il viso della puttana che batteva di fronte a casa sua. Una puttana
di mezz’età. Man mano che i quadri si dispongono nel tempo, giorno per giorno,
la puttana invecchia, gradualmente. La serie si interrompe con il dipinto di
una puttana anziana, ancora bellissima.
“Perché ha smesso?”, chiesi al mio amico stregone, “poi è
morta?”
“No”, mi rispose, “il mio amico ha scoperto che la
puttana che ha disegnato per tutta la vita è sua madre”.
Mi raccontò tutta la storia di fronte a un dipinto della
serie, gliel’aveva regalato il suo amico in persona, prima dell’agnizione.
Tenevamo le mani legate dietro la schiena e le nostre
teste guardavano in alto sulla parete, dov’era appesa l’immagine della puttana.
Stavamo in silenzio.
E quel silenzio nella mia testa sarebbe disturbato dagli scatti metallici del treno e io tornerei a pensare alla mia donna mora con gli occhi verdi che intanto scomparirebbe dalla porta del vagone.
E quel silenzio nella mia testa sarebbe disturbato dagli scatti metallici del treno e io tornerei a pensare alla mia donna mora con gli occhi verdi che intanto scomparirebbe dalla porta del vagone.
Non avrei così tanta voglia di tenermi il suo ritratto, a
quel punto. Così lo strapperei dal blocco e lo metterei in mezzo alle pagine,
così come lei le ha lasciate, lì dove Carver scrive: “Mi ha raccontato che il cieco l’aveva sfiorata con le dita dappertutto:
il viso, il naso… perfino il collo! Lei non se l’era più scordato”.
Chiuderei il libro e lo lascerei sul sedile. Riporrei il
blocco nello zaino, e questo lo caricherei sulle spalle alzandomi mentre il
treno inizia a rallentare. Mi avvierei per il corridoio. Lei tornerebbe dal
bagno, ci affronteremmo in una danza precaria, ma non la guarderei nemmeno per un
attimo. La lascerei passare e sentirei il suo profumo che galleggia dietro di
lei, fra la polvere abbagliata dal sole.
Il treno si fermerebbe completamente. Scenderei.
Resisterei a guardare attraverso il finestrino la sua reazione mentre si vede
nel ritratto. Camminerei veloce verso l’uscita della stazione, mentre lei
inizierebbe a ricordarmi per sempre.
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