Stare ad aspettare non è la manovra
più sensata. Precipitarsi fuori dal bagno e spazzarli via tutti mentre sono lì
a gingillarsi è l’unico modo per uscirne. Poi penso alle conseguenze. Una
ventina d’anni di galera, fedina penale sporca e un sacco di discorsi sul mio
conto in televisione. Decido che non ne vale la pena, soprattutto per quella
massa di imbecilli. Comincio a sentirmi un topo in gabbia. Devo trovare una
scappatoia. La cravatta mi soffoca, sudo freddo, e la soluzione che cerco tarda
ad arrivare. Un vociferio sempre più pressante lambisce la porta. Vorrei
urlare, ma questo contribuirebbe a creare un immagine ancora più distorta della
mia situazione. La luce chiara del sole mi abbaglia per un attimo. Guardo il
cielo fuori, dove una dozzina di rondini sta volando in formazione. Penso per
un attimo alla loro libertà. Se avessi anch’io le ali sarebbe tutto più
semplice. La finestra accende improvvisamente l'idea che cerco. Ora ho una via
di fuga. Sono solo al secondo piano, posso saltare. Quattro o cinque metri al massimo.
Bussano per l’ennesima volta alla porta. Stavolta è la mia pseudomoglie con la
sua candida vocina. “Caro, vieni fuori dai, ci aspettano tutti ed il parroco è
già pronto. Mio padre ha detto che se vuoi ci fa da testimone dato che Andrea
ancora non c’è.” Al solo suono di quelle parole sento un brivido correre lungo
tutta la schiena. Più ci penso e più voglio scappare. Mi sbrigo a salire sul
water, aprendo le due ante che danno sul giardino dietro alla parrocchia. Cerco
di non esitare, e salto senza guardare giù. Craaaak. Erba, terra, erba. Sono ancora vivo, ma qualcosa dev’ essersi
rotto. Nessun dolore. Sento inaspettatamente un po’ di fresco nel didietro. Mi
accorgo con piacere di aver creato una bella presa d'aria sul retro dei miei
pantaloni Armani, dando l’ultima pennellata di ridicolo a questa storia
assurda. Mi alzo in fretta, ancora un po’rintontito dal volo e comincio a
correre.
Correre. Correre. Correre, è l’unica cosa importante. Via da quel
mondo e da quella vita. Via dal matrimonio di favore, dall’auto extralusso,
dal mio lavoro strapagato, da quel coglione di mio suocero, dalle
preoccupazioni di mia madre, da quella troia isterica di mia moglie. Ho 32
anni, e non ho mai detto di No a nessuno. Mai un compito non portato a termine,
mai una nota di demerito. Sono sempre stato il figlio ideale, l’uomo ideale,
l’avvocato ideale. Uno stronzo qualunque insomma. Accontentando tutti quelli
che mi stavano intorno ho costruito mattone dopo mattone la mia infelicità,
sfiorando la soglia della pazzia. Ho creato un altro me dal quale, solo adesso,
dopo tanti anni, sono riuscito a liberarmi. Sull’orlo del precipizio ho
mandato tutti a quel paese ed ho saltato. Questo è il primo giorno della mia
vita in cui non ho rimpianti. La strada sembra volare sotto di me mentre le mie
gambe aumentano la velocità. Non sento la fatica, ed il senso di libertà che
cresce scende come una panacea sul mio animo rinato. Mi rendo conto di essere
già lontano dalla chiesa, avrò corso per circa 2 chilometri.
Mi fermo, sul
limitare della statale, guardandomi intorno. Non so dove andare, ma l’importante adesso è andare. Sudato, malconcio, ma libero. Sorrido, scoppiando
subito dopo in una risata rumorosa e liberatoria. Visualizzo per un secondo l'immagine della chiesa nella mia testa: la metà della gente che piange o si
incazza, e i miei amici che se la ridono, scrivendo un pezzo di storia con le
foto dell’altare vuoto. Dentro di me c’è un uomo che sta festeggiando la
vittoria, riprendendo possesso di ogni emozione rubatagli da tanti anni di “sì”
forzati. Comincio a camminare appena oltre la riga bianca di fine carreggiata,
senza più pensare a niente, conscio solo della mia felicità. Le auto corrono al
mio fianco, ignorando un mondo che ha voltato faccia. Alzo quasi d’istinto il
pollice della mano destra, tendendo teso il braccio. Sarebbe la prima volta in
vita mia che accetto il passaggio da uno sconosciuto. Pochi secondi dopo, una
600 rossa un po’ scassata si ferma cinque metri più avanti. Rimango quasi
sorpreso dall’efficacia del mio gesto. Faccio qualche passo. “Ciao, dove devi
andare?” Una ragazza con accento francese mi guarda da dietro un paio di
occhiali scuri. “Dove vuoi tu” rispondo con naturalezza aprendo lo sportello.
Un po’ interdetta ingrana la prima, ripartendo lentamente con il suo nuovo
bagaglio. Dopo 15 ore di viaggio
interrotte solo da un paio di soste, scendo in una Parigi ancora dormiente, che
sa di burro e croissant caldi, sull’assolato boulevard Saint Michel. La mia
compagna di viaggio, Charlotte, che nel frattempo ha avuto modo di conoscermi
più di quanto avesse mai fatto mia moglie, mi indica la chiesa alle mie spalle.
“È l’ eglise de Saint Antoine, la mia preferita. Ti consiglio di farci un
salto. Se devi ricominciare, è bene farlo da un posto speciale.” La ringrazio, salutandola con un po’di
nostalgia. “Non accettare mai le
caramelle dagli sconosciuti” diceva sempre la mamma. Lei non sapeva che le
sconosciute come Charlotte hanno sempre le caramelle più buone. Non sapeva che
le caramelle migliori scappano da noi, scegliendo altre vie. Non sapeva che le
caramelle più dolci sono quelle che vanno inseguite, prendendosi qualche
rischio. Mi rendo conto solo ora di aver sempre mangiato caramelle disgustose.
Salgo i pochi gradini che mi separano dalla costruzione. La gelida alba colora
di arancione le facciate imponenti della chiesa. Un rumore sale dall’anima
borbottando felicità. È ora di ricominciare. Una frase campeggia sullo stipite
della porta. “L’ incertitude est l’ essence même de la vie des hommes. ”
Sorrido, ripercorrendo le ultime 24 ore come un cortometraggio al limite del
comico. Erano 32 anni che cercavo di
essere me stesso.
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