giovedì 21 febbraio 2013

Ero piccolo


La dimensione è quella del sogno, o del ricordo. Sta di fatto che tutto è in bianco e nero o meglio, i contrasti, non sono così tanto accesi, tutto è avvolto da un leggero grigiore e la luce è molto tenue.
Mi ridestavo dall’oblio nero. Stavo ancora ad occhi chiusi e la testa si appoggiava laterale, cullata dalle pieghe calde del cuscino morbidoso…oso…oso. Non troppo distante dalle labbra, il pollice sinistro giaceva ancora morto, affogato da una saliva ormai ispessita e infreddolita.
 Mi svegliava un bacino, di quelli piccoli, piccoli, che hanno la leggerezza propria del loro suono a contatto con un guancia di fanciullo beato, che profuma di notte. Si allontanava lesta e veloce la cara ombra, illuminata di spicchio da un giallo ocra meno caldo ma forse più curioso del mio letto. Sapeva di panni a sciorinare, di bucato candido e di pelle morbida e pulita, dolce di natura. Addensata al centro della cameretta svaniva via, ombra dell’ombra e filtrava adagio, lontana, attraverso lo spiraglio della porta. Avrei voluto fluttuare anch’io dietro quell’essenza di fiore di loto, di principessa d’Egitto, e infilarmi alla base del collo, sotto la nuca, sotto la miriade di capelli sottili e biondi, vivere per sempre solo di quel profumo.
 Il caldo mi tratteneva nel mio lettino, dentro la conca accogliente, calco del mio corpicino, e mi rilassava di nuovo, mi abbandonava mi addormentava.
Con gli occhi chiusi le due piccole narici si muovevano ad intervalli, come quelle di un formichiere vicino al suo pranzo, e assimilavano goccioline di vapore nero, tostato, ridestato dalla luce del mattino. Quel sapore dell’aria m’incuriosiva, mi rassicurava e mi faceva voltare, finalmente reggere il pesante e goffo gigante di piume con il braccio al vento, alzarlo e toglierlo da sopra le gambine teneramente ossute, dal piccolo torace diaframmaticamente ritmico.
Era davvero un gioco stropicciarmi la minuscola canottiera di cotone mentre a piedi nudi, scosso da un brivido di freddo, dondolavo le zampine ai piedi del letto.  Era divertente schiacciare i paffuti e rotondi piedini sopra le freddissime mattonelle di marmo chiaro, scoprire quella più fredda, saltellare dall’ una all’altra. Col sorriso lievemente abbozzato sapevo già a quale altezza e sopra quale termosifone di ghisa, color panna, avrei scoperto la mia camicetta a quadri rossi bianchi e blu, riscaldata. Era rinascere indossarla, era il regalo d’ essere un piccolo cucciolo fortunato, passare braccino per braccino dentro il vestito, sentirne il profumo di cotone asciugato, fresco e balsamico allo stesso tempo, serrarmelo al corpo bottone bianco per bottone bianco, capace di farlo da solo, sentire il cuoricino pulsare frenetico, sotto la canottiera, sotto la pelle, dentro i polmoni.
Trotterellavo basso verso la cucina cercando di scoprire tutte le volte, come ogni mattina, se dalla mia visione più bassa di tutti gli altri, diversa, si potesse scoprire un’imperfezione, un avvenimento che potesse farmi ridere o far ridere. Guardare e tentare di sorprendere in ogni antro oscuro che si affacciava sul corridoio, magari un piccolo topolino che faceva pipì o un armadio furioso che diceva parolacce o una telefono che si grattava il sedere. Non succedeva mai nulla che non avessi già visto, eppure la realtà non era quella che vedevo, io ci credevo sul serio e una mattina avrei scoperto qualche stortura e avrei riso, riso a crepapelle.
Balenavo in cucina, colla nuca stropicciata all’altezza del tavolo rotondo, smaltato d’avorio, e fantasticavo su cosa ci poetesse stare sopra. Vedevo solo una cravatta dondolante, imponete e sentenziosa, a righe spesse, bianche blu e rosse, ne osservavo la punta che verso il basso giocava con me, m’indicava dove sedermi o cosa bere o dentro quale barattolo di marmellata intingere il pollice appiccicoso. Era divertente. Era uno spasso quando sfiorava il cappuccio della locomotiva grigia, dal fumo energico, profumato di chicchi neri, seccati al sole. Attendeva al centro del tavolo, alla stazione fiocchi d’avena, spesso percorreva rotaie del cielo e vorticava tra cattedrali di latte caldo, torri di cioccolato in polvere, grattacieli di fette biscottate e teatri di zucchero di canna. Era uno schianto essersi svegliato, continuare a ridere e a giocare. Non era finita lì, sarei andato dagli altri bambini, avrei sognato con loro tra poco.
Ero piccolo. Ero felice.

sabato 9 febbraio 2013

Qualcosa di innato



L’airone, calmo, come al solito, lento, possente, mi sorvola e continua dietro di me, alle mie spalle, verso sud. Quando si trova lontano duecento metri, porto due dita alla bocca e gli lancio un lungo fischio prolungato.
L’airone inverte la sua rotta tracciando una grande U sdraiata nell’aria fredda.


Mio fratello me l’ha spiegato più volte, lo spiegherebbe anche a voi, se non fosse troppo lungo, per voi, da raccontare, da leggere – è che io e lui passiamo molto tempo assieme, del tempo lento, calmo, con le ore scandite solo da pezzetti di storie, noi si va lenti, oltre i fogli, un milione di opere aperte, abbiamo, io e il mio fratello adorato, non come voi, che ne sapete, voi?, maledetti figli unici frettolosi senza uno scopo.
Dicevo che mio fratello me l’ha spiegato più volte che, quando va a caccia, e vede una lepre, e si appoggia il calcio del fucile alla spalla e mira alla nuca della lepre, che scappa da lui come se avesse il fuoco dell’inferno a un centimetro dal buco del culo, c’è il rischio che l’animale, dice mio fratello, di punto in bianco, tracci una stretta U sull’erba e torni indietro. È qualcosa di innato, dice mio fratello.
L’ultima volta, mi ha raccontato, una lepre ha provato a fargli sto giochino, ma lui, che è veloce e mortifero come Clint, l’ha guardata negli occhi e BUM! Dovevi vedere le cervella, il salto che ha fatto, prima di ricadere al suolo con la lingua di fuori e con tutti i nervi che si scaricavano convulsi, mi ha detto mio fratello. Io gli ho detto che non ci tengo proprio per niente a vedere una cosa del genere.
E comunque anche lui, non ne era mica tanto orgoglioso.
Vorrei vedere.
Anche perché, il nonno di mio fratello, nel 1943, è stato fatto prigioniero dai nazisti. L’hanno preso e buttato in un vagone merci insieme ad altri prigionieri - mica per portarli in villeggiatura, ma proprio per andare a morire in un lager; queste sono cose realmente accadute, a milioni di persone. Ad un certo punto, dice mio fratello che gli ha raccontato suo nonno, il treno si è fermato, nel bel mezzo di una selva oscura. Allora quattro nazisti biondi, con gli MP44 spianati, hanno preso un po’ di persone dal vagone del nonno di mio fratello, fra cui il nonno di mio fratello, gli hanno fatto togliere le scarpe e li hanno spinti, con quella forza invisibile che si materializza fra la bocca del mitra e la schiena dei prigionieri, a penetrare nella foresta. Scalzi, nella neve, i soldati dovevano di sicuro pensare che sarebbe stato un gioco da ragazzi uccidere dei prigionieri disarmati. Scalzi, soprattutto; mi ha fatto pensare a Primo Levi che diceva che in guerra la prima cosa sono le scarpe. Lo pensavano anche i prigionieri, quel giorno, perché c’era la neve a terra. Forse, però, il nonno di mio fratello non lo pensava. Vedete, lui, il nonno, veniva da una famiglia contadina della  Toscana, una famiglia povera, e probabilmente, lì alla fattoria del bisnonno di mio fratello, le scarpe erano l’ultima cosa. Lui andava a caccia di scoiattoli, scalzo, andava al fiume a pesca, scalzo, zappava la terra, scalzo, era sempre scalzo. Aveva i piedi da hobbit, da Huck Finn, piedi con una pianta dura come legno. Le scarpe costavano, ce n’era giusto un paio per i giorni più freddi, lo stesso paio che i nazisti gli avevano fatto togliere, e probabilmente in quel momento dovevano girargli forte forte i coglioni, al nonno di mio fratello, perché le scarpe erano rimaste lì buttate in un fosso, e lì sarebbero rimaste, tutte quelle scarpe, in un fosso, nel fango gelido, le mie scarpe, maledizione, doveva pensare, e le scarpe costavano.
E allora stavano camminando nella foresta, sempre più in profondità, era sempre più buio, lì nel bosco, ma l’idea che aveva nella testa il nonno di mio fratello, l’immagine, era chiara come il sole a primavera, come quel bagliore dei colpi che sarebbero stati esplosi di lì a poco, dalle bocche alle schiene intirizzite, i proiettili avrebbero viaggiato, la conclusione era manifesta, lampante, come il fuoco dei mitra e il sangue brillante, qualcosa si doveva far.
E qualcosa il nonno del mio fratello adorato fece. Qualcosa di sorprendente. Qualcosa di innato.
Uno scatto bruciante, le urla dietro, racconta il nonno, le urla in quella lingua tanto dura, i piedi sembravano scottare, scioglievano la neve, e lui correva, gli spari, ma lui correva e saltava, a brevi gincane, e poi ad un tratto.
Stop.
Il nonno di mio fratello cambia direzione all’improvviso, traccia una stretta U sulla neve e corre indietro.
Passa di fianco ai quattro assassini, biondi balordi, bastardi, sorpresi, e si butta nella selva.
È salvo.
Sparano, sparano a vuoto.
È salvo.
Corre verso nord, sfreccia accanto a un tabernacolo campestre, ci sono tre corvi sulla maestà che lo guardano correre, volano via al suo passaggio, al tuono degli spari, agli sbuffi caldi della sua bocca che si condensano in aria, come fosse una locomotiva che corre impazzita, assaltata da un masnadiere che armeggia con le leve, ha fretta di andare, non sa bene come si fa a far correre un treno, ma ci riesce, scappa col bottino a tutta caldaia, mentre il macchinista è legato e imbavagliato giù in un fosso, è ormai un chilometro indietro, il berretto blu gli è saltato dalla testa nella caduta, e lentamente si bagna, il berretto, di acqua marrone, che va a scurire la piccola gora rossa di sangue, proprio lì, alla base della visiera.
Corre, il nonno di mio fratello, ha dentro tutto questo, tutto il fuoco del carbone e le scintille delle ruote sui binari.
È salvo.
Ha una corazza di ghisa, pare, massiccio e indomito.
Il pirata che gli vive nel petto, è buono, è imbattibile, ha fretta di andare, di tornare, ha fretta, ma intanto va, va e basta. Come in tutte le storie, forse, spesso non si torna, si vive, in un momento che vi raccontano, che raccontate, in cui si ha fretta di andare, si va, si vive nel momento di una similitudine, che si chiude lì, magari, col povero macchinista che intanto si è rialzato, sbava qualche bestemmia sul bavaglio, sbatte i piedi a terra, è paonazzo in volto, e io ve lo faccio vedere da dietro, magari vi regalo una sagoma nera che si staglia su di un tramonto cremisi, mentre dimena tutta la testa ferita verso il treno che ormai è a due chilometri, si vede appena, giusto il fumo, vi tengo fissi sul macchinista, lascio andar via il manigoldo, che intanto scompare dietro la curva, l'ultimo luccichio del treno, l'ultimo sfrigolio dei binari.
Chiusa l'immagine. L'opera. Ma vive, il briccone. Vive, il pirata. Comunque.
Tornerà?, ce l'ha fatta?, vi chiedete?
Oh, per dio. Certo che è tornato. State tranquilli.
Non avrei mai conosciuto il mio fratello caro, adorato. Vi immaginate?
È libero. 
È a casa. È un pirata nel petto del mondo.
È salvo.
E fu qualcosa di innato, senza dubbio.
Come la morte, come il nazismo.


L’airone, dicevo, inverte a U la sua rotta.
Vola verso di me, di nuovo, per superarmi, ancora. Ma, appena giunge perfettamente sopra di me – è esattamente sopra di me, che se si potesse tracciare una linea che colleghi la punta del mio naso rivolta al cielo a quella del suo lungo becco, sarebbe drittissima -, rallenta e gracchia due volte. Vuol dirmi qualcosa. Due volte, gracchia. Due volte non troppo vicine.
Il secondo strillo mi prende alle gambe, che cedono molli. Scivolo con la schiena sulla parete ruvida aggrappandomi alle sbarre della ringhiera. Cedo al terrore, come a una colata di piombo.
Inchiodato a terra con il ferro stretto bene nelle mani, guardo attraverso le sbarre. Guardo giù.
Un piccolo funerale, poche persone raccolte attorno a una bara che è appena sfuggita di mano a chi la portava giù per la lunga scala a vista della cascina.
Tu-dum-tu-dum-tu-dum- Tu-dum-tu-dum-tu-dum- Tu-dum-tu-dum-tu-dum- Tu-dum-tu-dum-tu-dum- Tu-dum-tu-dum-tu-dum-scrrriiiiiiiiiiiiiiiiiiishcckk!
La cassa è spaccata, la salma è uscita, è caduta, è a terra. Non la vedo, ha intorno un nugolo di giacche nere. La guardano, non fanno niente, come i corvi sul tetto di un tabernacolo campestre. Restano immobili.
Un ragazzo finalmente si fa largo alle loro spalle. Solleva il morto e si incammina verso la cassa scoperchiata.
La gente forma due siepi nere, una donna è retta da due uomini, piange senza più forze, chissà da quanto, mentre il ragazzo marcia con il morto in braccio. Ha l’espressione di uno che fa questo mestiere da sempre, che è da quando è nato che raccoglie i morti da terra e li rimette nelle bare spaccate.
L’airone continua lento verso nord. Gira in volo attorno alle punte di tre pini.
La bara viene caricata nel carro, mentre l’aria si ferma e inizia a nevicare, timidamente.
Il ragazzo si passa le mani sul cappotto, come per pulirsele, ma si rende subito conto che non è un gesto appropriato, e si ferma.
L’airone ha trovato il suo albero. Si posa sulla cima, resta immobile. Sembra l’angioletto di ceramica sulla punta dell’abete. Sembra Natale.

giovedì 31 gennaio 2013

Potassio


Scrivi, scrivi mi dico.
Ho già smesso, mi alzo dalla poltrona da ufficio con le rotelle nere e vago. Ritorno a sedere.
Mi rialzo senza più un respiro e con molta acqua nel cervello.
Riprendo a scrivere ora. Vedo e sento i miei passi nella ripetizione della monotona passeggiata che disegna l’infinito, chiuso, dentro mura domestiche. Alcune finestre con la protezione di persiane seghettate sono spalancate indifferentemente per puro gusto personale. Altre sono chiuse con cognizione di causa anche se ho il respiro affannato e il cuore pesante per questa cruda verità.
Devo rendere l’idea dello spettro, devo creare la mia immagine accidiosa, nascostamente manifesta. Al limite dell’ossimoro lo sanno che sono qua dentro, che ramingo in questo spazio pieno di foglie secche e fiori caduti accumulati a mucchietti, simili a formicai artistici. Lo spettro lo sai che ci abita ma non lo vedi. E in effetti non mi vedono. Nessuno mi vede.
Nemmeno la vicina anziana che ha una procace voglia di parlare , non con me, non mi vede, ma con l’altra vicina anziana, che non ha più voglia.
“Ho delle albicocchine talmente piccine ma così dolci! E poi il potassio fa benissimo!”. E si, diamine, il potassio fa benissimo alla sua età.
Sono solo flussi di immagini spezzettate che cadranno in fondo al canterano dimenticato, che si legano alchemicamente a respiri strozzati e affanni del cuore.
Indosso abiti scuri che mi coprono solo il busto, per il resto scivolo silenzioso e spento, nudo con le ossa femorali sporgenti e la mia ingombrante protuberanza maschile che ricorda la coda nodosa di un macaco.
Nel mio navigare ondulato che non spuma e non scia m’imbatto in epifanie metodiche e ricorrenti.
Annaffio il vaso eretto di basilico appena credo di intravedere il tenue appassimento di una sola minuta fogliolina. Nello scrosciare dell’abbondante acqua che gli dedico m’inondo di un profumo basilare che mi irrobustisce le braccia e il petto. Mi scolpisce le spalle, sicure e piazzate.
Rintoccano le campane ad ogni ora e il tocco futuro è indubbiamente identico a quello passato e ho la sensazione di come questo tempo sia uguale a quello di prima e di prima e di prima ancora, l’ineluttabile staticità di una campana che finge di muoversi. Dalle spalle vedo le gambe rinsecchite, pallide, sporche,  avvizzite che umilmente ti porgono su di un vassoio d’argento la natura intrinseca: un osso duro e scialbo che infilza la carne fino a spuntare fuori, rivestito di setole nere sbiadite.
Terrore nell’ insistenza del campanello d’allarme che trilla. Qualche temerario è alla mia porta, vuole vedermi, vuole interagire, vuole prendere contatto con il mostro che ha già un pugnale conficcato nel diaframma per lo spavento.
Sarà un venditore ambulante, che esperto di spettri non si vergogna più di poter racimolare qualcosa anche con loro.
Mi rifugio in una fame astiosa che cerca di ricacciare fuori il pugnale che sanguina oleoso nello stomaco.
Cerco nel cassettone più in basso dell’armadio frigo l’ultimo boccone di frutta non ancora imputridita.
Mi ritrovo goffo nella massa poderosa dei mie arti superiori a mangiare banane, guardando spocchioso i mie inferiori stecchi di marmo e inorridito la mia vomitevole coda anteriore.
Regredisco antropologicamente allo spettro della scimmia accigliata e malvagia che abita nella mia dimora, dentro di me, ingerendo potassio, che entra nelle fauci come un flusso di orina calda, dolcissimo e che fa benissimo.

lunedì 21 gennaio 2013

Oltre la morte i tuoi occhi.





Oltre la siepe dei corpi
avvinghiati come radici umide,

i tuoi occhi.


Oltre cespugli di carne malata,
le mani veloci e le lingue,

i tuoi occhi.


Cadono sorrisi come stelle fredde che non mi colpiscono,
la scia gelida lasciata dietro è la mia riserva d’aria.

Si scrive meglio d’inverno infatti
quando non si trova il sole                                        e il buio aiuta a cercare le cose che non si vedono.

L’estate languisce il cervello a bagnomaria
nel sudore di pochi pensieri.

Ma oltre i pensieri
i tuoi occhi

                                                            ma oltre la morte
                                                            i tuoi occhi.


domenica 13 gennaio 2013

Bonsai


Sono le 15.49, già le 15.50 e butto giù qualcosa.
Guardo fuori dalla finestra e come già una volta sta piovendo. C’è poco da dire in effetti e nemmeno troppa ispirazione, piuttosto una languidezza viscerale che sono certo non dipende da una qualche musa,divinità del genio e dell’inventiva . Ho abbandonato i miei libri qui accanto a me sul tavolone di vetro con le gambe in ferro battuto. Sono nel salone al piano di sopra e cerco di descrivertelo minuziosamente perché non so più se te lo ricordi. C’è un divano color panna in pelle, comodo d’inverno ma troppo appiccicoso d’estate. Ci sono tanti libri in gabbia, quelle di legno alle pareti. Ci sono cappelli militari sopra le gabbie  (scommetto che uno sia anche un tuo regalo) e tanti morti stecchiti appesi che non parlano non si muovono ma troneggiano e come facciano io, me lo chiedo ancora. Vedo i miliardi di colori incastonati nel tappeto attraverso lo scorcio che disegnano le mie cosce impigiamate e i piedi pantofolati. Ed eccomi qua amico mio, sono qui, forse anche un po’ ingobbito ma è l’unico modo per sentirti,vederti o parlarti: c’è sempre bisogno di un maledetto schermo che ci divida. Che sia window, oppure una finestra oppure un cielo spento oppure i tuoi limpidissimi occhi. C’è una sottile linea di confine tra me e te. 
Le 15.59, già le 16.00 e piove ancora.
Ma è primavera qua. Tutto nuovo, nuovi odori, nuovi profumi pioggia nuova e funghi nuovi. Studio in una biblioteca, si qui al villaggio, anch’essa nuova splendida, luminosa struggente. Posso scendere pure in strada a prendermi un caffè in un bar di fronte. Nuovo, luminosissimo dai sorrisi nuovi e speranzosi, con prezzi nuovi con l’iva nuova al 21%. Tutto più nuovo. Eppure sono profumi che ho già sentito e questa pioggia mia ha già bagnato. La biblioteca sarà pure  nuova ma il palazzo reca la targa XV sec. e qualche dubbio me lo fa salire alla mente. Il bar è ristrutturato ma a quel circolo ha già servito mio padre quand’era ragazzo e forse chi lo sa, anche il padre di mia madre.
Sono le 16.06, già le 16.07 ed ha smesso di piovere.
Posso alzarmi e tornare ad affilare quei libri, i pilastri di quella costruzione a cui sto lavorando da un po’ di tempo in riva al fiume. Scorre in piena e lì sull’argine sono affaticato dal selezionare e scegliere e di nuovo affilare i primi pali che pianterò per terra, per erigere quella costruzione dove mia moglie accudirà i piccoli e si fiderà ancora una volta di me. Ho solo un bel contenitore, un vaso con buona terra umida. Ma si seccano i bonsai nella casa che non ho.
Mentre il fiume è in piena e tutto scorre. Sono le 16.10 già 16.11

mercoledì 9 gennaio 2013

Il pianto e il cognac.


Il cognac è freddo,
ne resta poco, e quel che rimane sublimerà.

Sulla scia lasciata dalle mosche incredule
che attraversano il fumo dell’incenso,
mi distendo
lungo
di gambe e pensieri.

Sto bene in bilico sul filo con sotto il tracollo
che mi sorride e aspetta,
ma non c’è fretta dentro agli occhi
solo qualche goccia
in tensione
tra la palpebra e l’orbita.

Borbotta il termosifone
parole di morte senza lotta:
“Anche il pianto sublimerà
così come il cognac”.

domenica 6 gennaio 2013

Funk


Nobody wants to die.
People, don't mind being dead.
Being dead is great.
But getting dead...
Nobody wants to get dead.

George Carlin



Lo Xanax. È nel cappotto, di là. Ci son tutti, di là. Devo restare qui, ancora un po’. Qui è sicuro. Tutti quei bambini, non posso, metteresti in difficoltà i genitori. Non posso farti andare. Che direbbero ai loro figli? Eh? Il tuo posto è qui. Come glielo dicono, che stai male? Ai figli non si parla mai di questi problemi, che poi gli vengono, crescendo, ai figli. Devono dirgli che ho la febbre, se la berranno. E poi, cos’hai? Eh? Cos’ho? Non lo sai, vero? Dai, che invece se ti sforzi, solo un pochino, ce la fai a capire che è quella dolcezza inquieta che t’è piovuta in petto un decennio fa, oramai, eh?, è uno stagnaccio verdone, eh?, ti pare di vederlo, eh?, di sentirlo, perfino. Annusalo.
Quell’airone, maledetto, dovevi ucciderlo. Tutta quella storia dell’animale totem, ma fammi il piacere. A quell’airone bisognava sparargli, hai ragione. Una fucilata. Per non parlare poi che tu sei un ornitofobico, dimmi te se un uccello grande in quel modo avrebbe mai potuto portarti da qualche parte. L’hai mai visto da vicino, un airone? Quegli occhietti rossi, piccoli come centesimi, truccati ai bordi di blu scuro, con in mezzo quel becco lungo, appuntito, per cercare nella sabbia larve, lombrichi, immaginalo a picchiare sul canterano della tua camera, in piena notte, con quel rostraccio grigio, a cercar le càmole nei pori del legno marcito, e ti sveglia quel tac tac tac tac, ti sveglia lentamente, e quando ti volti e scorgi quegli occhietti rossi, che rifrangono la luce blu della radio sveglia, allora ti irrigidisci e digrigni i denti, di scatto, appena sfiorato dalla punta del fioretto al centro della schiena, e lui fa scattare quel collo lungo nella tua direzione, non ce la fai a urlare, non respiri nemmeno, c’è un airone in camera tua, ma fai un rantolo, perché la paura t’ha preso per la coda con una mano e ti tappa la bocca con l’altra, e ti trascina via, piccolo sorcio impaurito che non sei altro, e quando stai per svenire, quell’uccello alto come un bimbo di tre anni sui trampoli, truccato da pagliaccio, con gli occhi cerchiati di blu, con un nasone lungo un palmo, appuntito, quel bimbo, che sembra un airone, è un airone, si spaventa e prova a volare, è adesso che urli forte, ma la porta è chiusa, e la finestra pure, e tu muori, muori dalla paura, urlando, perché con quelle ali gigantesche sbatte ovunque, e ti cade addosso, ti piomba sul petto, si dimena, con quelle alacce lunghe, infinite, due mezzi aquiloni fatti di muscoli e pelle e piume, e mentre le sbatte senza logica, cercando di tirarsi su in piedi, graffiando con le unghie delle zampacce la coperta, ti pare di udirlo anche adesso quel rumore scraff scraff scraff scraff, ti pare di vedere un uomo alto, possente, una figura familiare, tiene fra le mani nodose un telaio di ossa, triangolare, e con calma, con perizia, consultando un manuale, spennella sul reticolo la colla e vi adagia sopra i muscoli, di nuovo la colla e la pelle gialliccia, ancora la colla e copre tutto con delle piume, avvicina la creazione alla lampada del tavolo da lavoro, con le manone lisce, da impiegato, preme sui muscoli, fa attenzione che s'attacchino bene, guarda serio da dietro gli occhiali se c’è qualche imperfezione, è calmo, si pulisce una mano sul camice, è pronto ad assemblare l’uccello trampoliere, dopo aver costruito l’altra ala, lo stesso trampoliere che si sbatte indemoniato sopra il tuo petto, adesso, o quand’è, mentre tu muori dalla paura.
E mentre muoio sento la puzza della palude.
Il tuo animale totem, eh?, che vola elegante, elegantissimo?, da lontano pare pulito, eh?, da lontano. Com'è che dicevi?

Solo il volo del suo airone lo illuse che esisteva una via di fuga. Con il collo piegato all’indietro guardava in alto quelle ali remare l’aria, e si sentiva come un soldato lasciato indietro dai compagni, e vedeva la bestia come un civile che non parlava la sua stessa lingua, mentre tutto intorno è macerie e budella, che gli passava accanto imperturbabile e sicuro, figura  angelica, indicandogli la via, insegnandogli la fuga, in silenzio. Era la sua guida - unico superstite indigeno del paese distrutto - doveva esserlo per forza.

Ma fammi il piacere.

                               

Non senti la morte, vero? Vero che non la senti, la morte? Come quella volta che avevi le fitte lancinanti al petto, te le ricordi, le fitte? Con Alfredo, stavi parlando, e sentivi quelle fitte. Forti. Degli uncini. E pensavi: dopo muoio e Alfredo dirà agli altri: eh, son l’ultimo a cui ha detto qualcosa, a parte i clienti, non mi ricordo che cosa, perché non si parlava di niente, sapete quei discorsi che si fanno al lavoro, ci lavoravo insieme, ma chi era davvero, io non lo so proprio. Comunque, niente, ragazzi, mi parlava, e niente, si tastava il petto e aveva questa tosse secca e stizzosa, di continuo, e deglutiva nervosamente, di continuo. Io lo vedevo che non stava bene, era bianchiccio. Era distratto. Poi gli ho detto, dai, dopo ci facciamo un Campari, al bar, con gli altri, così non ci pensiamo. E lui mi ha detto che sarebbe venuto senz’altro. Oh, ragazzi, cavolo, ma si vedeva che era distratto, si vedeva bene. Stava male, che disgrazia, a quest’età. Il cuore. Eh, ma quando ti chiamano c’è d’anadar su, e di corsa, che non ti aspettano nemmeno per cambiarti le mutande. A quel Campari non c’è mai arrivato. Non ci pensa più davvero, adesso. Beato lui. È tornato alla scrivania, ha messo le cuffie, si è posizionato il microfono, e niente, l’abbiamo ritrovato un’ora dopo. Con quei separé di compensato non c’eravamo accorti di niente. Era lì, vivo, per noi era vivo. Ma forse era morto. Stava vendendo il nuovo piano tariffario, capite?, un piano tariffario. Un morto che vende il nuovo piano tariffario Free life. Un morto che vende Life. Poi non rispondeva. Il cuore. Che tragedia. Per fortuna non aveva figli. Magari era morto anche l’altro, di là dal cavo, e magari l’ultima cosa che aveva sentito era: con il nuovo piano tariffario Free life può avere subito uno smartphone a soli 25 euro al mese. Capite? Eh? Te lo ricordi che pensavi a tutto questo, ad Alfredo che diceva tutto questo, a te piccolo piccolo nella grossa bara con la sciarpa della Juve fra le mani, grigiastro, rigido, trattato come un bambola di legno, svuotato degli organi buoni. Il chirurgo che ti sviscera, e prende il tuo fegato fresco, ne strizza via il Martini, lo posa nella borsa frigo.
La macchina corre veloce, sballotta nelle curve, le sirene che svegliano i bimbi che piangono nelle culle calde, i cani che abbaiano nelle cucce nei giardini, con la testa fra le sbarre delle ringhiere dei balconi, la sirena urla, tutti strillano e abbaiano al passaggio del tuo fegato.



Lo Xanax. È nel cappotto. È di là, mi vedrebbero tutti in queste condizioni. Proverei a dir loro che sto bene, sì, vedendoli avvicinarmi con aria preoccupata, che sto bene, dev’essere la mia dieta, mi alimento male, vedrai, con un bicchiere di vino, vedrai, mi rimetto in piedi, mi stendo sul divano e mi rimetto in piedi, aspetta, porta di là i bambini, che s'impressionano, fammi sbottonare il colletto, aspetta, non toccarmi, lasciami, aspetta, dì a tuo figlio di star buono, aspetta, datemi aria, penserei. Penserei queste cose per dirle, ma non ce la farei, con questa lingua gonfia, poi!, è più grande, la lingua, lo senti che è cresciuta, sembra quella di un gatto, secca, ruvida, e l’ugola, cristo di dio!, è grassa che un gatto ci mangia una settimana intera, e non riuscirei nemmeno a sentire che mi dicono, di là, spegnerebbero la musica, anche. Tutti quegli occhi su di me. Senza musica, per colpa mia. Con quelle facce serie, maledizione. Eh? Non vi sento, vi dico che non vi sento, perché il cuore e il ronzio nelle orecchie e tutti i pensieri che si intrecciano e che si graffiano sui corpi nudi, nascosti, in quell’ombra melmosa. C’è un buio bianco, qui in bagno, è un buio pulito. Che rumore dappertutto. No, è dentro, dappertutto. È tutto dentro. Stai tranquillo, è tutto dentro, falli star dentro. Non c’è modo che escano, devono calmarsi, è che devono farlo tutti insieme. Non posso uscire ora. Devi star dentro, qui dentro. Guarda, come son bianco. Chissà vedermi da fuori, ora, chissà vedermi da dietro, guardare il riflesso sullo specchio, avvicinarmi a me, posarmi una mano sulla spalla, da dietro, in silenzio. Farei un salto, tutti i capelli bianchi dalla paura, le gambe mi cederebbero, un urlo che dalla nuca mi attraverserebbe il cervello come uno stiletto arrugginito, e fuori dal naso e dalla bocca, acuto come il diamante sul vetro, grave come una lastra d’alluminio che cade da un camion in corsa, e sull’asfalto ondula, prima di appoggiarsi e strisciare scintillante, e fa il gorgheggio di un monaco tibetano con le fauci lunghe dieci metri l’una, le corde vocali si spezzano, le tonsille esplodono, sangue dai buchi, sputato qua e là, anche sulle mie scarpe, che stanno lì davanti a me, e io dentro quelle scarpe, alto su di me, lì sopra a dirmi, guardati, vedi, lo specchio ti deforma. Qui, guarda. Col ditone unto sullo specchio. Lo vedi che non sei così. Sei deforme, non sei così. Te lo dico io. Lo specchio mente. Guarda la tua bocca, storta, che smorfie fai?, hai paura?
Sei piccolo piccolo.
Guarda.
Guardati.
Guardati da me.
Guardati da te.
Piccolo sorcio spaurito.
Guardami, però.
GUAR
DA
TI

Ma fammi il piacere.