domenica 30 dicembre 2012

Pecore e Gin.



Musica. Parole. Fumo. Si riempiono bicchieri di ghiaccio e si svuotano teste da ogni pensiero. Una spruzzata di alcool a giustificare il tutto. E io bevo un altro sorso, guardando dall’alto un branco di pecore che scalpitano quando il pastore cambia il suo disco. Moquette rossa e pacche sulle spalle di amici provvisori. Mi stai simpatico, ma solo per stasera. – Ciao, tu sei l’amica di…? – E i miei occhi cadono su quella V generosa, lì vicino al cuore. Ma non era il cuore che cercavo.



Il ritmo si alza, i freni si mollano. Guardo gli stronzi che si mettono davanti a me, tutti in posa. Flash. Risate. Domani avremo qualche foto di questa serata di merda. I Tacchi alti tengono in piedi le speranze mentre i miei amici fanno a gara a chi balla con le gambe più lunghe.

E le mani si alternano tra capelli, sigarette e bicchieri gelati. Tutti con la faccia da uomini vissuti a reggere la parte che ci siamo preparati.



Le pupille dilatate palleggiano la sala e decido di muovermi anch’io. Voglio nuotare nel recinto di pecore per vedere se riesco a tosarne qualcuna. Sorrisi fumosi e parole urlate contro timpani sfondati. Il pastore ci ordina di alzare le mani al cielo, ma sopra di noi c’è solo un lurido soffitto. – Vai da lei – E così mi ritrovo a girare intorno al suo lucidalabbra che sa di pesca. E mi muovo, e ti muovo. Sono la pecora più bella di tutte. E già costruisco storie, quando la vedo allontanarsi con le sue amiche. Il fumo la inghiotte, e per un attimo quasi mi mancherà.



Le labbra si seccano, le speranze si seccano, le pecore si seccano.

Steso su divanetti macchiati di negroni sbagliati guardo il fondo di quel bicchiere e mi sento solo. Giro e rigiro il ghiaccio. Mastico ciò che resta di quello schifo. Le luci si accendono. Buonanotte.

Uomini e porci.





Sto stretto, la schiena mi batte contro questa plastica rigida e nera, troppo rigida troppo nera, anche per me. Un maiale affettato in ogni sua parte, mi giace davanti, lussurioso e sconcio.
Sono così anche le prostitute nel Red District di Amsterdam, ma con loro non ci casco, con il maiale si!
Sono distratto però, più in là, oltre la carne distesa del martire suino sta un altro maiale. Questa volta vivo, questa volta eretto sulla schiena, ma seduto su di una sedia in legno, color pastello molto più in linea con la mia idea di comodità rispetto alla mia, troppo rigida troppo nera.

Ebbene il Signor D. ha qualcuno da importunare stasera, e non sono io.
Io lo osservo, facendo finta di guardare i quadri alle sue spalle. Non mi piacciono a dir la verità questi quadri e far finta di osservarli mi fa sentire stupido e con un pessimo gusto artistico.

Che poi sono costretto a pensarci, sto leggendo troppi libri sul  buddismo Dzogchen per mentire a me stesso. Serve tolleranza, serve compassione.
Ho studiato latino alle superiori così scompongo com-passione “cum-pato” . Dove “cum” sta per “insieme” e “patior” per “patire” . Ma io il latino lo gestisco come voglio, non sono più al liceo, ora traduco come voglio e come conviene.

“Provare insieme”.

Traduco come mi conviene: “Provo insieme per voi…”
Odio.

Ecco, l’ho detto e lo so che in “cum-patior” non si parla esattamente d’odio in linea di massima, ma sono uscito dal liceo, ora posso.

Provo un odio democratico per voi, un odio che non devo necessariamente capire, mi basta assaporarlo. Un po’ come quando mandi giù il rum Zacapa e ti aspetti che ti ustioni papille, trachea poi budella e invece, un caldo sollievo dolce ti si sprigiona dentro.

Ecco mi aspetto che l’odio mi bruci e invece ora ne provo uno stillo, piccolo e moderato per ognuno di voi.

Il signor D. qualche bicchiere più in là del maiale non me ne voglia, ma stasera sarò compassionevole, a modo mio s’intende, un po’ per uno.

Poi trovo il cane, un bastardo silenzioso, dagli occhi onesti.
Decido di alzarmi e devo roteare sui tacchi, intorno alla sedia come un pattinatore.
Vado in cucina, che è una stanza piccola, vuota di vivi e piena di cose morte, ma sto meglio.

Il cane se ne sta steso sopra la sua umiltà, sopra uno zerbino peloso e imbevuto di sapone per piatti.
Mi piego, porto la sguardo all’altezza degli occhi del cane.
E indovinate?
Il cane fa come me, mi fissa un secondo negli occhi e pare non voler chiedere niente.
Modesto e spaventato in un istante porta le pupille prima altrove, poi piega la testa e poggia lo sguardo alla terra, come se ci fosse molto di più a che pensare tra i peluzzi dello zerbino che in cielo.
E forse ha ragione, io faccio lo stesso.
Nessuno di noi due ci pensa, ma stasera ho imparato una cosa.
Io somiglio più a questo cane modesto, che ai suini seduti di là, sorridenti e un po’ ubriachi, sopra sedie migliori, sedie color pastello.

sabato 29 dicembre 2012

Una vecchia Volpe, una vecchia canzone, un nuovo tatuaggio



Va che in questo periodo medito - una volta al mattino e una nel primo pomeriggio - attacco la chitarra al piccolo Vox sfondato, pigio sul bottoncino dell'overdrive, parte il feedback, e medito. Ho un mantra elettrico, io.
E ho sempre la stessa visione.
Sono in una stanza buia, c'è un vecchio armadio di fronte a me. Lo apro ed è vuoto.
Il legno è scuro, coperto di una resina nera, gocciolante, sento odore di benzina.
C'è un foro al centro del pannello di fondo che mi spara sul petto un fascio denso di luce bianca.
Mi avvicino piano e guardo nel buco.
Vedo una camera da letto con una grande finestra che dà sull'ansa di un fiume. Il sole è bianco, lo posso fissare senza accecarmi, in linea perfetta col foro.
Controluce, davanti alla palla bianca, passano, a intervalli brevi, le sagome nere di due uccelli acquatici. Emettono fischi disturbati.
Una figura femminile, con un cappello con le orecchie da volpe, entra in scena dalla parte nascosta della stanza, passa danzando di fronte al mio occhio che fuoriesce gommoso dallo spiraglio. Pigiando un po' con la testa, il mio bulbo oculare si sporge sempre di più dalla fessura, facendo il rumore di uno scarafaggio schiacciato.
Anche lei è controluce, tranne che per una parte della coscia sinistra, illuminata dal riflesso dei raggi che rimbalzano su uno specchio, credo, appeso sopra il foro da cui la spio.
Vedo bene sull'interno della sua gamba, bianca come ceramica, un tatuaggio. Raffigura un uomo che piange accasciato sul gigantesco piede di un antico colosso di pietra. Il colosso non c'è, solo il piede è testimone della rovina, delle lacrime, che rotolano brillanti sul grosso alluce senza pulirlo.
Lo vedo bene, il tatuaggio, quando danza sollevando la gamba sinistra, su una musica lontana di fisarmonica. Non è un tango, è più una ballata.
A questo punto, ogni volta, l'occhio comincia a dolermi. Poi il dolore si traduce nella sensazione calda di una goccia di sangue che mi solca la guancia. Mi stacco lentamente, l'occhio resta lì, incassato nel legno sporco. Continuo a vederla ballare, è silenziosa, se non per qualche respiro più forte, e per lo scricchiolio delle travi del pavimento di legno. Contrasta un po' con la musica, il rumore delle vecchie travi, rende tutto così reale. Sento di guardare una scena profondamente privata. Sono eccitato.
Mi tocco l'orbita vuota, ma non inorridisco. Mi sento bene. Prendo una sigaretta e me la infilo in bocca.
La vedo che continua a danzare.
Come accendo il fiammifero riesco a sovrapporre l'immagine della fiamma nel buio a quella della stanza assolata. Il sole diventa rosso, pian piano, gli uccelli si incendiano in volo.
Lei continua a danzare.
All'improvviso è molto caldo. Non respiro bene.
Sto bruciando.
Le fiamme mi avvolgono.
Il dolore mi libera, non devo più respirare.
Mentre io brucio, lei continua a danzare.
Quelle orecchie di volpe seguono i movimenti ritmati del collo e tracciano immagini nell'aria gassosa, come fossero i nastri di una ginnasta.
Mentre il fuoco si sta mangiando tutto il mondo, lei continua a danzare.
Mentre muoio di là, per tornare di qua, lei continua a danzare.

Mentre lascio la mia visione, lentamente, lei continua a danzare.
Sono tornato, e so che lei continua a danzare.
A volte chiudo gli occhi e la vedo danzare, ma ce li ho entrambi.
Dov'è il terzo.
Cos'è il terzo.

                                                                     *                   *                   *

Cara Volpe,

Mentre venivo da te, ieri, stavo ascoltando Where do You go to (my Lovely), che attacca con la fisarmonica, e fa così:

"You talk like Marlene Dietrich
And you dance like Zizi Jeanmaire
...
"

Non voglio dirti che ti pensavo mentre la ascoltavo, perché non è del tutto vero, e poi va a finire che ti monti la testa.

Però, prima, su quel prato, quando eravamo sdraiati in mezzo agli olivi a guardare le nuvole, ad un certo punto ti sei tirata su in piedi e hai fatto quei due passetti di danza, e io avevo in mente Where do You go to (my Lovely) di Peter Sarstedt, e tu ballavi su quella canzone, almeno nel mio cervello.
Poi ti sei fermata, hai tirato su la gamba destra, e col piede poggiato sulla guancia mi hai chiesto imbronciata se eri brava come Zizi Jeanmaire. Be', non lo eri. Neanche un po'.
Io mi canticchiavo in testa Where do You go to (my Lovely), e tu non potevi saperlo.

Però lo sapevi.
Ecco perché ero lì che ti fissavo, di gesso. Non era perché ballavi bene.
Non mi piace come balli.
Insomma, la prossima volta, stai più attenta a quello che dici.

Vale,

S.

Poscritto: Comunque eravamo in fabbrica e hai menzionato Zizi a proposito del taglio di capelli che volevi farti. O ho sentito male, con tutto quel rumore di torni e frese e presse? Non ha importanza.
Ma la fabbrica è sempre brutta, e gli olivi sono quasi sempre belli. Un po' come te (brutta) e Zizi Jeanmaire (bella).
E poi, voglio dire, se fossimo stati davvero sdraiati vicini su un prato, ti saresti messa di sicuro sopra una merda di cane.

Il tuo abbraccio.




Caro amico mio.
Cominciando con queste banali parole vengo meno ad alcune promesse. Per prima cosa avrei dovuto scriverti prima, in secondo luogo ti avevo accennato che avrei scritto sotto i fumi di un buon vino durante un sabato notte e invece sono qui alle nove e mezzo del mattino completamente lucido. Avrei dovuto anche ordinare le idee e progettare qualcosa di schematico ma più passano i giorni e più gli inquadramenti  vengono meno. Opterò per un più veritiero flusso di coscienza. Metto un segnalibro rosso e blu intarsiato di una bella scritta “In biblioteca perché c’è il futuro della tua storia” al mio libro di latino. Ferisco il manuale di autori alla pagina duecentosettantasette e abbandono Lucano con le sue speranze trucidate. Chiudo.
Zap. Uno splendido sorriso femminile, è la ragazza del bar. Esco dal portone di legno massello e lei esce dal suo di cristallo, mi chiama e non vuole nulla. Parliamo del nulla e ci salutiamo scomparendo, evanescenti, puri. Ha i capelli castani gli occhi attenti e il viso dolce da bozza di cartone animato. Credo che le sarebbe piaciuto interpretare una principessa Disney ma è solo un mio pensiero che rimbalza al momento su questi tasti.
Zap. Sono già sopra il sellino nero, strappato in una piccola parte. Si vede bene il giallo dell’adipe all’interno,  cioè della gommapiuma. Pedalo a passo lungo e ruoto sopra lastricati scuri, botteghe deserte, mi saluta il cartolaio, mi scrutano torvi gli insicuri e arrivo dove regnano le auto. L’ora è tra le più aride, un tocco dopo il meriggio e m’innalzo su per la salita, continuo a pedalare, non penso e non fatico, il sangue mi pulsa nelle tempie allo stesso tempo della pedalata che comincia a perdere un po’ della sua giovane energia. Sono in cima, alto, molto affaticato? Vivo  il sudore di Sisifo con i miei massi sulla schiena dentro una tracolla azzurra, serrati da una zip.
Zap. Non ci sono più vetture, c’è un signore anziano che passeggia verso di me distinto, con occhiali da sole sportivi, mi saluta sotto la sua passeggiata ombrosa di tigli. Pedalo ancora verso il fiume, la calura è meno arida e più lussureggiante. Verde, riprendo ora io la speranza che perse Lucano. Traballo a scatti prima di abbandonare il mio mezzo, lo seppellisco tra il grano nero dal lungo stelo e scendo giù al torrente. Sisifo mi ha lasciato ancora il sasso sulla schiena, ho scarpette di tela scura leggera e non sono stabile nella discesa fangosa. Mi tengo forte e curvo come un primitivo alle radici esposte e ad uno straccio di corda messo lì da chi, crede forse, ancora, nella solidarietà. Sono nel letto, isolato, non c’è campo, levo la borsa e la maglia così velocemente che non mi rendo conto che cosa mi sia tolto prima.
Solo.
Scorre una luce limpida e tiepida, passa sotto di me, a destra a sinistra. Riesco a capire che tutto sommato, è tiepida e limpida. Basta, subito mi rivesto e risalgo in superficie, riprendo la bici e risistemo i capelli. Afferro e rilascio cadere a terra la mia più vera amica di questi giorni. Una strana figura mitologica dal grande occhio giallo le mani metalliche e la pelle che si scalda al sole fino a scottare al tatto. Sta al mio fianco e mi parla in una lingua antica che sa più di cigolio di cerchioni che di sussurri. Eppure comprendo che mi consiglia di cigolare.
Zap. Lo spezzatino assorbe il suo sugo, ormai tutti i quadretti di zucca gialla si sono disfatti insieme alle cipolle, c’è una bella luce accogliente sopra la terrina di coccio amaranto, tutto intorno c’è profumo d’impegno ricompensato. Ripenso che una volta i ragù, anche se questo è uno spezzatino, si preparavano con molti tipi di carne di animali diversi, anche con scarti ricchi di grasso come ad esempio il collo o le zampe di gallina. Io non ho cucinato un ragù e comunque le zampe di gallina le ho lasciate alle radici degl’occhi dei miei commensali. Tre quattro cinque solchi da una parte e dall’altra nella pelle secca.
Zap. Non mi diverto più, nemmeno nel paese dei balocchi. Ho ginocchia snodate e vado a ritmo. Racconto storie a figlie che ho appena catturato. Non ci riesce chi ancora spera e ci riesco io? Io che ho smesso di temere e quindi di sperare. Passeggio tra capelli affumicati e sopra moquette alcolizzate. Non mi faccio più ridere e qui non riesco a capirci più niente. Mi viene a recuperare lei,  è bellissima ed arrabbiata nera. Lo sarei anch’io. Si sono rovesciati quei valori tradizionali, lasciamo stare le carrozze e i cavalli bianchi ma ora è lei che passa a prendere lui nemmeno a mezzanotte ma alle tre del mattino.
Zap. Ho compreso il tuo abbraccio in quella spelonca stroboscopica nella città barbara. Ho spalle più larghe di te eppure sprofondo nella tua camicia a nido d’ape, quadretti verdi e rossi, odorosa, stordita, spaesata. Ho capito i tuoi polpastrelli smaniosi ed eccitati al centro perfetto tra le mie due scapole alate. Una splendida camicia che respira ampia e piana. Ho capito che questa lagnanza te la invierò di notte perché forse c’è meno traffico o forse di più ma è sempre e comunque più romantico.
Pagina duecentosettantotto.
Zap.

giovedì 27 dicembre 2012

Melanismo industriale.




La gente passa,
il vento fa il suo giro tra le gambe,

mentre il sole taglia a metà la piazza
con un ombra
netta,
precisa.

Non chiedere spiegazioni,
mi hanno detto,
sorridi,
mimetizzati.

Questo però rimane un imbroglio,
e io non posso,
sto fermo,
con gli occhi aguzzi.

Non è il sole che taglia e no,
non è il vento che passa,
sono gli uomini,
con la loro faccia,

i loro sguardi, le mani in tasca.
Io sto fermo,osservo,
conservo le idee
dentro al corpo

come un tegumento di una lenticchia
fa col suo seme.
Mi capisco solo con
le falene e la fuliggine.

Ma intanto la gente passa,
e il vento fa il suo giro tra le gambe (di chi non guarda).

mercoledì 26 dicembre 2012

Muore il pettirosso

                               



Tentano di entrare. Ci provano schietti e fieri. Sono in tanti, moltissimi. Hanno un gran da fare e le spalle coperte, loro. Sanno di potercela fare. E forse ce la fanno ad entrare, forse. Scappiamo, ci rintaniamo, al buio caldo, comodo, che mal di schiena è aria vecchia. Entreranno qua dentro, ce la faranno, sono bravi, sono tutti girati verso di noi, sono sputi, di sentenze. Loro non ce l'hanno fatta. È una ghiaccia insoddisfazione. Vogliono condividerla. Sono cristalli di ghiaccio, sono arrivati. Pettirossini intorpiditi al centro della strada. Il petto rosso d'amore è grigio, stolza a scatti esautorato di voglia. Un petto troppo grande per la capocchia di spillo, grigia anch'essa, il comandante, le testa, il capo, di cosa? Non c'è più voglia, perché ce n'è troppa, è possibile tutto ciò? Eppure c'è? Oppure no? Spiragli. Sono arrivati, arrivano sempre, gelati cristalli. Stordito in mezzo alla strada mi trovo. Ho lasciato aperte troppe cose.
< è morto quel pettirossino! >
< è morto? >
< Si. >  Avvilita la mamma.
Melanconia, con quella languidezza di stomaco che ha un sapore. Non è buono ma è un sapore. Melanconia. Ci fumo la pipa, nel passato, cioè ieri ce l'ho fumata sopra, però è diverso, cioè è ieri ma ce la fumo. Sopra, che saporaccio. Sopra a quell'altro.                                                                                                                                                                               

martedì 25 dicembre 2012

Ah giusto oggi è Natale.




La signora A. è seduta dritta davanti a me, cioè non proprio frontalmente, leggermente alla mia sinistra. Non ci sopportiamo, o meglio credo lei non mi sopporti e io non sopporto lei, difatti non ci parliamo.
Ma la signora A. oggi è vicina e che lo voglia o no devo sentirla parlare.

Voglio fare un excursus.
Avete presente quando avete dormito poco, o siete tesi come corde sottilissime e cavalcate i pensieri uno sull’altro, pensiero dopo pensiero dopo pensiero.
Beh nel frattempo la realtà continua e la stiamo perdendo, non si può staccare il cervello nel bel mezzo di un pranzo con tanto di parenti.

La signora A. oggi è vicina, ma non mi riserva sorprese.
Mi fissa, ma quando non la guardo, con il suo maledetto fare di vecchia, mi scruta, mi osserva.
Sento le sue rughe muovere l’aria a sbuffetti per volgere lo sguardo meschino verso di me.
Lei non lo sa signora, ma il mio occhio sottile mi consente di vederti con la coda.

“Ai miei tempi i ragazzi si pettinavano sempre con i capelli all’indietro. Oggi guardali tutti con i capelli in avanti”.

Ma da quale remoto luogo dell’universo proviene questa creatura con il viso allungato e la pelle di tacchino, grinzosa. Ai lobi penzolano orecchini che più li guardo e più mi convinco essere scarabei, catramici insetti seccati nel bitume.

E il suo respiro, dio mio!
Così pesante, sofferto. Rifletto, rifletto.

La signora A. che è seduta vicino a me, che non mastica, ma deglutisce, che non pensa, ma sputa sputa sputa.

Io ti odio signora A.
Ma ah giusto, oggi è Natale!

Oggi devo accarezzare i gatti, sorridere almeno, alle battute che non capisco, fare i complimenti per l’Armagnac che sa di legno e augurare a tutti le migliori felicità.

lunedì 24 dicembre 2012

È meglio non avercelo un cuore.




Gocce di pioggia sul parabrezza. Gocce di sudore su di noi. Spazio angusto fatto di baci e carezze, di respiri pesanti e pelle nuda. È un sabato notte. Un sabato notte di quelli primaverili, con la luna piena in cielo e cocktail improbabili sullo stomaco. Ci mescoliamo nel buio, facendo finta che in qualche modo ci importi qualcosa l’uno dell’altro. Simuliamo emozioni, orgasmi, parole, relazioni. Ci mentiamo a vicenda e ce lo facciamo bastare.
Qual è la differenza? Cosa distingue due amanti da due anime sole?

Avrei potuto innamorarmi. Avrei voluto innamorarmi di te, a dire il vero. Invece siamo qui, a muoverci ritmicamente e a guardarci negli occhi vuoti. Iridi nere inespressive. È un modo di tenersi compagnia alla fine, è quasi uno sport ormai. Io ti piaccio, tu mi piaci. Scopiamo. Scambiamo liquidi biologici di ogni natura. Esploriamo mucose altrui. Saltiamo tutti i passaggi complicati. Perché devo mangiare la buccia quando posso avere la polpa? Non mi importa più se prima parliamo del tempo, del più e del meno, del tuo gatto di merda o di cosa abbiamo mangiato a pranzo. L’importante è che poi scopiamo.

Ci graffiamo, ci mordiamo. Spremiamo il succo da un frutto già stantio. L’unico che festeggia qui è l’ego. Quando vedo quelle gambe argentate illuminate dalla luna. Le sue labbra carnose nella penombra che mi sorridono. Sogni viziosi su quella schiena nuda e quel culo. 
Dio mio quel culo.

È una lotta tra anime sole, a chi riesce a prendersi il meglio. Qui nessuno corre in coppia, qui nessuno gioca in squadra. Solo respiri bestiali e artigli mentre mi arrampico con le labbra fino alle sue spalle. Cerco il piacere in fondo a quei fianchi, finchè non lo trovo.
Restano sono solo sedili macchiati dei nostri peccati. E solitudine.
Ogni anno più di 40 persone si gettano giù dai ponti o sotto i treni in questa città. La maggior parte di esse lo fa per il cuore spezzato. Dopotutto è meglio non avercelo un cuore.



domenica 23 dicembre 2012

Due spigoli ai lati della testa



Lo so che non ti ho più scritto, ma da quando io e mia mamma andiamo in giro ad imbiancare non ho più così tanto tempo per scrivere. Poco male, comunque, vuol dire che si lavora.

Tipo il lavoro più bello che abbiamo fatto è stato dentro un asilo delle suore dell'ordine del Sacro Cuore di Gesù, quelle vestite di nero. Che poi è lo stesso asilo che ho frequentato da bambino, ma solamente per un anno. Solo per un anno, poi ho finito la scuola materna al comunale. Ci stavo anche bene dalle suore, ma mia madre una volta venne a trovarmi all'asilo durante il primo pomeriggio, dopo il riposino ci facevano fare delle attività creative, le suore, tipo disegnare coi punteruoli d'acciaio.

Non so se hai presente: ci davano una tela incorniciata e un punteruolo d'acciaio, e noi si doveva fare un disegno bucando la tela. Una cosa strana, effettivamente, non ho trovato riscontri raccontandola in giro. Sembra che nessuno di quelli che conosco, durante l'infanzia, abbia mai disegnato con un punteruolo d'acciaio su una tela incorniciata, bucandola. Ma esiste davvero. Quella tecnica è vera quanto il motivo per il quale mia madre mi ha portato via dall'asilo delle suore dell'ordine del Sacro Cuore di Gesù, quelle vestite di nero.
Insomma mia madre arrivò all'asilo, dice che quel giorno pioveva. Era uscita dalla Tipo con l'ombrello sopra la testa che sembrava vivo, tanto era il vento quel giorno, sembrava volesse scrollarsi di dosso l'acqua e migrare verso un posto caldo e asciutto, l'ombrello, tanto pioveva quel giorno. A quel tempo, anni e anni prima del tumore, fumava ancora le MS, mia madre, ne fumava quasi un pacchetto al giorno. Ed era uscita dalla Tipo e con l'ombrello e l'MS in bocca entrò nel cortile dell'asilo. Passò di fianco alla statua del Cristo con le braccia larghe e i palmi rivolti al cielo, come il Cristo Redentore di Rio, o di Maratea, ma più piccolo, parecchio più piccolo, che mia madre che è bassa riusciva a dargli il cinque, o cento lire, per dire. Continuò verso il portone e a metà strada si accorse dell'MS che stava fumando. Non voleva sporcare con un mozzicone il cortile dell'asilo delle suore dell'ordine del Sacro Cuore di Gesù, quelle vestite di nero, così prese la sigaretta la sporse fuori dal perimetro dell'ombrello e la pioggia la spense, quindi si infilò la cicca nella tasca del cappotto nero. Così mi ha sempre raccontato.
Era bella mia madre col cappotto nero. Adesso non se lo mette più, forse l'ha anche buttato. Era bella mia madre d'inverno, quando tornava a casa col cappotto nero con le gocce di pioggia attaccate, che si aggrappavano al feltro, e mi chiamava, e andavo lì, e lei era sulla porta bianca di casa che si sbottonava il cappotto e aveva una gran permanente di capelli neri. Poi mi avvicinavo e lei mi abbracciava, ma non sempre, se aveva fretta non mi abbracciava, se aveva tempo, invece, mi prendeva fra le braccia e mi diceva qualcosa in sardo, e profumava di rossetto. E questo era strano, perché il rossetto lei nemmeno se lo metteva, e neanche adesso se lo mette.
Allora entrò nell'asilo delle suore dell'ordine del Sacro Cuore di Gesù, quelle vestite di nero, salutò la bidella in portineria, forse ci fece quattro chiacchiere, dice, e poi si diresse verso la grande aula dove tutti i bambini disegnavano coi punteruoli d'acciaio sulle tele incorniciate, bucandole. Tutti i bambini tranne il suo, di mia madre, dico, quindi io. Io ero da una parte, per terra, su un tappeto, intento a costruire una pistola con le costruzioni.
Mia madre bussò e entrò sorridendo a suor Eugenia che ricambiò il sorriso e le fece cenno di entrare mentre spiegava a tutti i bambini tranne che al suo, di mia madre, quindi io, come si disegna la sagoma di una quercia. Mia madre mi notò lì per terra con le costruzioni, si avvicinò col cappotto perlato di pioggia, si accovacciò con tutta la sua gran permanente di capelli neri, e mi chiese, perché tu non disegni come gli altri?, perché io non posso, risposi, che vuol dire che non puoi?, domandò, io non posso usare il punteruolo, feci, e allora che fai qui da solo?, mi incalzò, una pistola, dissi infine.


Suor Eugenia era già passata alle ghiande e ai cinghiali che nei boschi le grufolano fra le foglie di rovere, e si dovette fermare perché mia madre l'aveva interrotta alzando una mano, così la suora la raggiunse con tutto il suo vestito nero.
Perché mio figlio non disegna coi punteruoli?, le chiese, perché suo figlio non può, rispose placida, che significa?, mia madre mise gli occhi a fessura e rimase con la bocca socchiusa, se dessi a suo figlio un punteruolo potrebbe far male a qualche bambino, signora. Mia madre dice che suor Eugenia era rimasta calma e aveva anche sorriso di compassione.
Be', mia madre mi prese e mi mise la giacca a vento rossa e la cuffia di lana, rossa anche questa, che mi aveva fatto lei con l'uncinetto, ma non era tanto brava e allora le era venuta quadrata e quando la mettevo mi si formavano due spigoli ai lati della testa. Mi trascinò mentre piangevo perché volevo rimanere a giocare con le costruzioni e la bidella le disse qualcosa tipo, tutto bene?

Sì, tutto bene, le abbaiò mia madre senza guardarla, mentre riprendeva l’ombrello. Si sbatté il portone alle spalle e si abbassò a chiudermi la giacca a vento sul collo e poi si accese una MS. La pioggia le spense la sigaretta, mentre camminavamo verso l’uscita del cortile, allora se la tolse dalle labbra e la schiacciò sulla mano destra del Cristo Redentore.

Suor Eugenia era sulla soglia del portone, bassa e tozza con tutto il suo vestito nero che riluceva alla luce bianca di un primo pomeriggio invernale di pioggia, nei punti in cui era più liso.

Morì di malattia due anni più tardi.

Alessandro, mentre giocavamo a sotterrare i giocattoli sotto la rena della riva ovest del Tevere, mi disse che era stato al funerale e che avevano fatto vedere la salma pure ai bambini. L’aveva vista anche lui: aveva la faccia gonfia, mi disse, qui sotto il mento, soprattutto, e era come coperta di chiazze viola. La cosa che non capiva, Alessandro, era perché l’avessero seppellita col suo vestito nero, mi raccontò, che si vedeva che era consumato sotto la luce rossa delle candele. Ma alla fine solo lui ci aveva fatto caso, continuò a dirmi, al vestito nero consumato, gli altri bambini facevano caso alle chiazze viola, e al collo gonfio, soprattutto.

Un ragno che ne sa.





Avevano detto che oggi avrebbe piovuto, ed ha piovuto.
Anche il tempo è diventato qualcosa di prevedibile, ma riesco comunque a stupirmi che le batterie rotonde di una calcolatrice si ricarichino,anche se di poco,con il sole.

A volte ci sono cose meravigliose e non conta l’ordine o la logica di ciò che abbiamo visto.
Stamattina le ragnatele erano perfette con l’umidità che le appesantiva e le rendeva ben visibili.
Sui cancelli di ferro arrugginito, fauci, con tanto di saliva argentata.

Certo non sono resistenti come il nylon aromatico,come il Kevlar,ma Cristo se sono belle.
Il fatto è che un ragno non ci pensa nemmeno,le fa e basta. Metri e metri di filo, a spirale, a imbuto, a groviglio. Non gli servono altro che delle ghiandole filiere ad un ragno. Mi capite?

Nasce tutto da due ghiandole e un ragno non ne sa un cazzo di estetica, il ragno vomita fili e basta.
Dipende da come vedi la cosa.

giovedì 20 dicembre 2012

Oggi non.



Seduto, si stavo seduto, seduto come al solito, gambe incrociate.
E il sangue non passa ad entrambi i piedi ugualmente.
Uno dei due si gonfia.
Posso immaginarmelo violaceo, ma di un viola vivo, come quello della placenta dei vitelli appena nati, avete presente?
Mentre stavo seduto, seduto come al solito, è passato del tempo, e non è successo niente, si può dire a rigor di logica che sia “passato niente”.

Attraverso la scarpa, attraverso il calzino, il piede, sinistro. Sempre più viola. Ed è pure la gamba buona. Non è bene stia così.
Così cambio posizione e ora sono seduto,seduto come al solito, gambe incrociate,
ma all’opposto.
Ci metto un po’ ad accorgermi, ma il tempo passa e succede niente, proprio ora, mentre ci penso.
Dalla mia non so che fare, oggi non penso, sono in sciopero.
Ieri ho pensato abbastanza.

Oggi non cammino, la discesa è umida finirei con lo scivolare. E’ pure piena di foglie secche, e lo so mi mettono tristezza. Tutto il tempo lì aggrappate con una foga che mi è sconosciuta,
ma niente.
Si staccano, senza emettere suoni, se non un silenzioso e sommesso sussulto. Un fruscio.
No oggi non cammino. Oggi prendo l’autobus.
Ma non appena che il sinistro, si quello che era diventato viola e ancora ne soffre, varca la soglia,
occhi.
Occhi dappertutto, ci saranno venti persone ma gli occhi sono duecento.

Quanti occhi, è come la casa degli specchi dove da piccolo mi abbandonava mio padre. Ma in questi occhi che sono piccolo vetri riflettenti non ti ci riesci a specchiare. Dio mio ho mal di testa.
Scendo dall’autobus e si non è la mia fermata, ma fa niente, due, tre , quattro passi. Niente foglie morte intorno al momento.
Seguo i piedi, uno dopo l’altro e di nuovo e di nuovo. Che poi mica ci penso non so dove sto andando, ma i piedi, ora vanno che è una meraviglia.
E chi li ferma?
Io oggi non penso, oggi li seguo.

Pensare che prima stavo seduto, seduto come al solito, gambe incrociate.
E ora ecco, un piede e poi l’altro, dentro e fuori dal mio campo visivo in una sequenza che pare sempre perfettamente la stessa.
Passa altro niente sotto un piede, e poi niente sotto l’altro.
Ma io l’ho detto oggi non penso, alla fine oggi cammino e cammino e cammino, cioè oggi seguo i miei piedi.
Qualche ciottolo a terra lo riconosco, e l’usura delle strisce pedonali dove inchiodano le macchine. Penso… penso, e avevo detto di no, ma alla fine eccomi.

Un gradino poi l’altro, conto le macchie, e penso, penso che se fossi una formica sarei
più soddisfatto per ogni gradino, ma io vado a rampe e ci penso e mi dispiace, anche perché mica mi hanno fatto scegliere.
Cactus che paiono morti, ma i cactus non muoiono sono come quelle star bicentenarie che vedi in tv ancora in jeans e t-shirt. Che involucri!
Terra, una ghianda infilzata nella terra dura.
La porta, è quella di casa. La guardo,
ma non entro. 

Denti suini.





Vedi caro amico. Forse li vedi anche tu ora, forse non li vedi, sono sicuro che li hai visti almeno una volta. Ci sono quelle porte da bar dietro, se segui il mio indice, bravo, proprio lì. Le cornici nere e il vetro appannato, doppi vetri di persone fuori e triplo arredamento di persone dentro. Tanti occhi suini vaporosi accesi da una cicca. Troppi tacchini al vapore, ma non ho fame, è passata da un po’ l’ora di cena. Ormai è passata. Colabrodi di zucchero liquido inebriante. Cioè, insomma, sono loro: uomini e donne, maschi femmine, piercing e coppole. Ma che noia cha noia che noia Cristo che schifo. Ci credo che quelle caviglie sono così gonfie su quei trampoli laccati, grugnisci come un seghetto da ferro! Mi si stringe il respiro e troppo lucide sono le teste, troppo, ma che idiozia Cristo!(Santo ancora, ma dove sei?)

Via via. Son qui che ti cerco e lo sai. Vorrei solo poter affogare ancora in un paio d’occhi belli,cavolo, con quel miagolio delle ciglia, inspirare piano e sicuro il profumo di quelle mucose lunari. Che sapore quell’essenza. Ma l’illusione manca e ti ha già fregato. Si, se mi hai seguito fin ora siamo in due.
Ti ha fregato la luna, ti ha fregato il profumo della notte. E ti frega sempre come ogni ciclo, come i giardini di marzo, come quella canzone. Come quando sfogli veloce un piccolo libro dalla copertina nuova, verde, di poesie, per farti il vento sul palmo della mano. Frù frù, già andato, il vento delle muse ti sfila attraverso le dita.
Posso solo affogare in queste poche righe terribili, terribile.
Basta, da questa sera non ci cascherò più. Che affanno al cuore. Brancolanti morti con un cristallo in mano, un portafoglio di pelle di coccodrillo in tasca e un biglietto non ancora obliterato per la giostra finale. Sicuro. C’è qualche giostra ancora aperta.
C’è la risata dell’autoscontro sotto una pioggia acida, c’è il tiro a segno, quanto sei abile amico mio, c’è lo zucchero, di filato questa volta. Bene: ci sono gli hot dog , ci vuoi un po’ di maionese sopra? Ma certamente.
C’è una pila di merda: sulle teste, sull’otto volante, nei bicchieri, nelle scarpe col tacco e in quelle coi plateau. Troppa sugna viscida sotto, dove? Le unghie? Mah, io la vedo anche sopra. Fuori. Là. Fuori.
Ci sono pile di merda che in media, calcolando longitudine, latitudine, clima, cultura, storia, raggiungono l’altezza di un metro e settantotto centimetri e trentacinque anni d'età.
Non ci cascherò più e se Dio vuole(non Cristo) sarò come loro, quelli pelati, con gli occhi canini e i denti suini. Quelli di prima amico mio, quelli che. Vedi caro amico. Sono qui, insieme a noi.

Treno

Io non so disegnare.
Non so fare un sacco di cose che non mi manca saper fare. Non so fare a pugni. Non so prendermi cura di un orto. Non so suonare il pianoforte. Non so portare una barca a vela. Non so arrampicarmi su una pertica.
Ma soprattutto non so disegnare.
Sarebbe bellissimo prendere un treno e sedermi di fronte a una donna sulla trentina, mora con gli occhi verdi, che legge Carver. Stare lì col mio blocco in mano e fare lo schizzo del suo viso, perdendo tempo a seguire bene i contorni del suo mento. Sarebbe importante che non sospetti nulla, dovrei essere discreto, guardare più spesso fuori dal finestrino invece che fissarmi sul punto in cui il suo collo lungo e fino – sembra un Modigliani, quanto è bella – si attacca alla spalla, quella destra, che sarebbe nuda, perché ci troveremmo in primavera inoltrata, di sicuro. E come sarebbe difficile disegnare quel punto. Non solo perché è difficile disegnare quel punto.
Lo finirei, in quanto tempo? In mezz’ora, facciamo mezz’ora. È solo uno schizzo.
Improvvisamente si alzerebbe. Siamo vicini a una fermata, penserei, il treno è tanto che non sosta. Ma non scenderebbe, prenderebbe la borsetta quando il macchinista non ha nemmeno ancora cominciato a rallentare. Andrà in bagno, può darsi, spererei, e quando s’è alzata con la mano destra si è allisciata la gonna nera, di seta, sembra, e con la sinistra appoggia Cattedrale lì sul sedile, lo posa aperto, a pancia in giù per tenere il segno. Uno spiraglio di luce – perché è pomeriggio e le ruote girano e frizionano i binari imbruniti per mandare il grosso bruco di ferro verso il sole –  la colpirebbe mentre la guardo camminare nel corridoio.
Si terrebbe in equilibrio con la borsetta appesa all’avambraccio che dondola e segue i movimenti del bestione, che adesso sembra che fatichi, e penserei che il treno mi pare sempre così pesante, quasi svogliato, ma comunque veloce e stabile, in qualche curva presa forte può ricordare addirittura un cavallo nervoso, ma poi torna a rigare dritto, e sbuffa di nuovo, come se non volesse, di nuovo animale bonario da soma, ma tira, dio bono, tira dritto che è una meraviglia.
Poi smetterei di pensare al treno perché quei raggi come acqua arrivano dappertutto, e sbattono forte sulla sua gonna - che sarebbe nera, sì, ma come di seta, l’ho già detto – in uno scroscio di barbagli che mi farebbero intravedere il contorno morbido delle gambe, e l’insenatura liscissima dietro le ginocchia.
Oh, quel punto! Dio bono, quel punto! Andrei fuori di testa per un paio di secondi felici. E penserei di fare duecento, trecento, forse; ma che dico?!, mille, un milione, addirittura; sì!, un milione di quadri, in un milione di tecniche diverse, e sarebbero tutti rappresentanti quel punto, quel pezzo di pelle bianca e soffice dietro le ginocchia delle donne.
La mia mente andrebbe subito a quel mio amico, uno stregone, che aveva un amico, in Brasile, a São Paulo, che per tutta la vita ha disegnato il viso della puttana che batteva di fronte a casa sua. Una puttana di mezz’età. Man mano che i quadri si dispongono nel tempo, giorno per giorno, la puttana invecchia, gradualmente. La serie si interrompe con il dipinto di una puttana anziana, ancora bellissima.
“Perché ha smesso?”, chiesi al mio amico stregone, “poi è morta?”
“No”, mi rispose, “il mio amico ha scoperto che la puttana che ha disegnato per tutta la vita è sua madre”.
Mi raccontò tutta la storia di fronte a un dipinto della serie, gliel’aveva regalato il suo amico in persona, prima dell’agnizione.
Tenevamo le mani legate dietro la schiena e le nostre teste guardavano in alto sulla parete, dov’era appesa l’immagine della puttana. Stavamo in silenzio.
E quel silenzio nella mia testa sarebbe disturbato dagli scatti metallici del treno e io tornerei a pensare alla mia donna mora con gli occhi verdi che intanto scomparirebbe dalla porta del vagone.
Non avrei così tanta voglia di tenermi il suo ritratto, a quel punto. Così lo strapperei dal blocco e lo metterei in mezzo alle pagine, così come lei le ha lasciate, lì dove Carver scrive: “Mi ha raccontato che il cieco l’aveva sfiorata con le dita dappertutto: il viso, il naso… perfino il collo! Lei non se l’era più scordato”.
Chiuderei il libro e lo lascerei sul sedile. Riporrei il blocco nello zaino, e questo lo caricherei sulle spalle alzandomi mentre il treno inizia a rallentare. Mi avvierei per il corridoio. Lei tornerebbe dal bagno, ci affronteremmo in una danza precaria, ma non la guarderei nemmeno per un attimo. La lascerei passare e sentirei il suo profumo che galleggia dietro di lei, fra la polvere abbagliata dal sole.
Il treno si fermerebbe completamente. Scenderei. Resisterei a guardare attraverso il finestrino la sua reazione mentre si vede nel ritratto. Camminerei veloce verso l’uscita della stazione, mentre lei inizierebbe a ricordarmi per sempre.

Le caramelle più buone.




Stare ad aspettare non è la manovra più sensata. Precipitarsi fuori dal bagno e spazzarli via tutti mentre sono lì a gingillarsi è l’unico modo per uscirne. Poi penso alle conseguenze. Una ventina d’anni di galera, fedina penale sporca e un sacco di discorsi sul mio conto in televisione. Decido che non ne vale la pena, soprattutto per quella massa di imbecilli. Comincio a sentirmi un topo in gabbia. Devo trovare una scappatoia. La cravatta mi soffoca, sudo freddo, e la soluzione che cerco tarda ad arrivare. Un vociferio sempre più pressante lambisce la porta. Vorrei urlare, ma questo contribuirebbe a creare un immagine ancora più distorta della mia situazione. La luce chiara del sole mi abbaglia per un attimo. Guardo il cielo fuori, dove una dozzina di rondini sta volando in formazione. Penso per un attimo alla loro libertà. Se avessi anch’io le ali sarebbe tutto più semplice. La finestra accende improvvisamente l'idea che cerco. Ora ho una via di fuga. Sono solo al secondo piano, posso saltare. Quattro o cinque metri al massimo. Bussano per l’ennesima volta alla porta. Stavolta è la mia pseudomoglie con la sua candida vocina. “Caro, vieni fuori dai, ci aspettano tutti ed il parroco è già pronto. Mio padre ha detto che se vuoi ci fa da testimone dato che Andrea ancora non c’è.” Al solo suono di quelle parole sento un brivido correre lungo tutta la schiena. Più ci penso e più voglio scappare. Mi sbrigo a salire sul water, aprendo le due ante che danno sul giardino dietro alla parrocchia. Cerco di non esitare, e salto senza guardare giù. Craaaak. Erba, terra, erba.  Sono ancora vivo, ma qualcosa dev’ essersi rotto. Nessun dolore. Sento inaspettatamente un po’ di fresco nel didietro. Mi accorgo con piacere di aver creato una bella presa d'aria sul retro dei miei pantaloni Armani, dando l’ultima pennellata di ridicolo a questa storia assurda. Mi alzo in fretta, ancora un po’rintontito dal volo e comincio a correre. 


Correre. Correre. Correre, è l’unica cosa importante. Via da quel mondo e da quella vita. Via dal matrimonio di favore, dall’auto extralusso, dal mio lavoro strapagato, da quel coglione di mio suocero, dalle preoccupazioni di mia madre, da quella troia isterica di mia moglie. Ho 32 anni, e non ho mai detto di No a nessuno. Mai un compito non portato a termine, mai una nota di demerito. Sono sempre stato il figlio ideale, l’uomo ideale, l’avvocato ideale. Uno stronzo qualunque insomma. Accontentando tutti quelli che mi stavano intorno ho costruito mattone dopo mattone la mia infelicità, sfiorando la soglia della pazzia. Ho creato un altro me dal quale, solo adesso, dopo tanti anni, sono riuscito a liberarmi. Sull’orlo del precipizio ho mandato tutti a quel paese ed ho saltato. Questo è il primo giorno della mia vita in cui non ho rimpianti. La strada sembra volare sotto di me mentre le mie gambe aumentano la velocità. Non sento la fatica, ed il senso di libertà che cresce scende come una panacea sul mio animo rinato. Mi rendo conto di essere già lontano dalla chiesa, avrò corso per circa 2 chilometri. 

Mi fermo, sul limitare della statale, guardandomi intorno. Non so dove andare, ma l’importante adesso è andare. Sudato, malconcio, ma libero. Sorrido, scoppiando subito dopo in una risata rumorosa e liberatoria. Visualizzo per un secondo l'immagine della chiesa nella mia testa: la metà della gente che piange o si incazza, e i miei amici che se la ridono, scrivendo un pezzo di storia con le foto dell’altare vuoto. Dentro di me c’è un uomo che sta festeggiando la vittoria, riprendendo possesso di ogni emozione rubatagli da tanti anni di “sì” forzati. Comincio a camminare appena oltre la riga bianca di fine carreggiata, senza più pensare a niente, conscio solo della mia felicità. Le auto corrono al mio fianco, ignorando un mondo che ha voltato faccia. Alzo quasi d’istinto il pollice della mano destra, tendendo teso il braccio. Sarebbe la prima volta in vita mia che accetto il passaggio da uno sconosciuto. Pochi secondi dopo, una 600 rossa un po’ scassata si ferma cinque metri più avanti. Rimango quasi sorpreso dall’efficacia del mio gesto. Faccio qualche passo. “Ciao, dove devi andare?” Una ragazza con accento francese mi guarda da dietro un paio di occhiali scuri. “Dove vuoi tu” rispondo con naturalezza aprendo lo sportello. Un po’ interdetta ingrana la prima, ripartendo lentamente con il suo nuovo bagaglio.  Dopo 15 ore di viaggio interrotte solo da un paio di soste, scendo in una Parigi ancora dormiente, che sa di burro e croissant caldi, sull’assolato boulevard Saint Michel. La mia compagna di viaggio, Charlotte, che nel frattempo ha avuto modo di conoscermi più di quanto avesse mai fatto mia moglie, mi indica la chiesa alle mie spalle. “È l’ eglise de Saint Antoine, la mia preferita. Ti consiglio di farci un salto. Se devi ricominciare, è bene farlo da un posto speciale.”  La ringrazio, salutandola con un po’di nostalgia.  “Non accettare mai le caramelle dagli sconosciuti” diceva sempre la mamma. Lei non sapeva che le sconosciute come Charlotte hanno sempre le caramelle più buone. Non sapeva che le caramelle migliori scappano da noi, scegliendo altre vie. Non sapeva che le caramelle più dolci sono quelle che vanno inseguite, prendendosi qualche rischio. Mi rendo conto solo ora di aver sempre mangiato caramelle disgustose. Salgo i pochi gradini che mi separano dalla costruzione. La gelida alba colora di arancione le facciate imponenti della chiesa. Un rumore sale dall’anima borbottando felicità. È ora di ricominciare. Una frase campeggia sullo stipite della porta. “L’ incertitude est l’ essence même de la vie des hommes. ” Sorrido, ripercorrendo le ultime 24 ore come un cortometraggio al limite del comico.  Erano 32 anni che cercavo di essere me stesso.