giovedì 31 gennaio 2013

Potassio


Scrivi, scrivi mi dico.
Ho già smesso, mi alzo dalla poltrona da ufficio con le rotelle nere e vago. Ritorno a sedere.
Mi rialzo senza più un respiro e con molta acqua nel cervello.
Riprendo a scrivere ora. Vedo e sento i miei passi nella ripetizione della monotona passeggiata che disegna l’infinito, chiuso, dentro mura domestiche. Alcune finestre con la protezione di persiane seghettate sono spalancate indifferentemente per puro gusto personale. Altre sono chiuse con cognizione di causa anche se ho il respiro affannato e il cuore pesante per questa cruda verità.
Devo rendere l’idea dello spettro, devo creare la mia immagine accidiosa, nascostamente manifesta. Al limite dell’ossimoro lo sanno che sono qua dentro, che ramingo in questo spazio pieno di foglie secche e fiori caduti accumulati a mucchietti, simili a formicai artistici. Lo spettro lo sai che ci abita ma non lo vedi. E in effetti non mi vedono. Nessuno mi vede.
Nemmeno la vicina anziana che ha una procace voglia di parlare , non con me, non mi vede, ma con l’altra vicina anziana, che non ha più voglia.
“Ho delle albicocchine talmente piccine ma così dolci! E poi il potassio fa benissimo!”. E si, diamine, il potassio fa benissimo alla sua età.
Sono solo flussi di immagini spezzettate che cadranno in fondo al canterano dimenticato, che si legano alchemicamente a respiri strozzati e affanni del cuore.
Indosso abiti scuri che mi coprono solo il busto, per il resto scivolo silenzioso e spento, nudo con le ossa femorali sporgenti e la mia ingombrante protuberanza maschile che ricorda la coda nodosa di un macaco.
Nel mio navigare ondulato che non spuma e non scia m’imbatto in epifanie metodiche e ricorrenti.
Annaffio il vaso eretto di basilico appena credo di intravedere il tenue appassimento di una sola minuta fogliolina. Nello scrosciare dell’abbondante acqua che gli dedico m’inondo di un profumo basilare che mi irrobustisce le braccia e il petto. Mi scolpisce le spalle, sicure e piazzate.
Rintoccano le campane ad ogni ora e il tocco futuro è indubbiamente identico a quello passato e ho la sensazione di come questo tempo sia uguale a quello di prima e di prima e di prima ancora, l’ineluttabile staticità di una campana che finge di muoversi. Dalle spalle vedo le gambe rinsecchite, pallide, sporche,  avvizzite che umilmente ti porgono su di un vassoio d’argento la natura intrinseca: un osso duro e scialbo che infilza la carne fino a spuntare fuori, rivestito di setole nere sbiadite.
Terrore nell’ insistenza del campanello d’allarme che trilla. Qualche temerario è alla mia porta, vuole vedermi, vuole interagire, vuole prendere contatto con il mostro che ha già un pugnale conficcato nel diaframma per lo spavento.
Sarà un venditore ambulante, che esperto di spettri non si vergogna più di poter racimolare qualcosa anche con loro.
Mi rifugio in una fame astiosa che cerca di ricacciare fuori il pugnale che sanguina oleoso nello stomaco.
Cerco nel cassettone più in basso dell’armadio frigo l’ultimo boccone di frutta non ancora imputridita.
Mi ritrovo goffo nella massa poderosa dei mie arti superiori a mangiare banane, guardando spocchioso i mie inferiori stecchi di marmo e inorridito la mia vomitevole coda anteriore.
Regredisco antropologicamente allo spettro della scimmia accigliata e malvagia che abita nella mia dimora, dentro di me, ingerendo potassio, che entra nelle fauci come un flusso di orina calda, dolcissimo e che fa benissimo.

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