Scrivi, scrivi mi dico.
Ho già smesso, mi alzo dalla poltrona da ufficio con le
rotelle nere e vago. Ritorno a sedere.
Mi rialzo senza più un respiro e con molta acqua nel
cervello.
Riprendo a scrivere ora. Vedo e sento i miei passi nella
ripetizione della monotona passeggiata che disegna l’infinito, chiuso, dentro
mura domestiche. Alcune finestre con la protezione di persiane seghettate sono
spalancate indifferentemente per puro gusto personale. Altre sono chiuse con
cognizione di causa anche se ho il respiro affannato e il cuore pesante per
questa cruda verità.
Devo rendere l’idea dello spettro, devo creare la mia
immagine accidiosa, nascostamente manifesta. Al limite dell’ossimoro lo sanno
che sono qua dentro, che ramingo in questo spazio pieno di foglie secche e
fiori caduti accumulati a mucchietti, simili a formicai artistici. Lo spettro
lo sai che ci abita ma non lo vedi. E in effetti non mi vedono. Nessuno mi
vede.
Nemmeno la vicina anziana che ha una procace voglia di
parlare , non con me, non mi vede, ma con l’altra vicina anziana, che non ha
più voglia.
“Ho delle albicocchine talmente piccine ma così dolci! E poi
il potassio fa benissimo!”. E si, diamine, il potassio fa benissimo alla sua età.
Sono solo flussi di immagini spezzettate che cadranno in
fondo al canterano dimenticato, che si legano alchemicamente a respiri
strozzati e affanni del cuore.
Indosso abiti scuri che mi coprono solo il busto, per il
resto scivolo silenzioso e spento, nudo con le ossa femorali sporgenti e la mia
ingombrante protuberanza maschile che ricorda la coda nodosa di un macaco.
Nel mio navigare ondulato che non spuma e non scia m’imbatto
in epifanie metodiche e ricorrenti.
Annaffio il vaso eretto di basilico appena credo di
intravedere il tenue appassimento di una sola minuta fogliolina. Nello
scrosciare dell’abbondante acqua che gli dedico m’inondo di un profumo basilare
che mi irrobustisce le braccia e il petto. Mi scolpisce le spalle, sicure e
piazzate.
Rintoccano le campane ad ogni ora e il tocco futuro è
indubbiamente identico a quello passato e ho la sensazione di come questo tempo
sia uguale a quello di prima e di prima e di prima ancora, l’ineluttabile
staticità di una campana che finge di muoversi. Dalle spalle vedo le gambe
rinsecchite, pallide, sporche, avvizzite che umilmente ti porgono su di un vassoio
d’argento la natura intrinseca: un osso duro e scialbo che infilza la carne
fino a spuntare fuori, rivestito di setole nere sbiadite.
Terrore nell’ insistenza del campanello d’allarme che trilla.
Qualche temerario è alla mia porta, vuole vedermi, vuole interagire, vuole
prendere contatto con il mostro che ha già un pugnale conficcato nel diaframma
per lo spavento.
Sarà un venditore ambulante, che esperto di spettri non si
vergogna più di poter racimolare qualcosa anche con loro.
Mi rifugio in una fame astiosa che cerca di ricacciare fuori
il pugnale che sanguina oleoso nello stomaco.
Cerco nel cassettone più in basso dell’armadio frigo
l’ultimo boccone di frutta non ancora imputridita.
Mi ritrovo goffo nella massa poderosa dei mie arti superiori
a mangiare banane, guardando spocchioso i mie inferiori stecchi di marmo e inorridito
la mia vomitevole coda anteriore.
Regredisco antropologicamente allo spettro della scimmia accigliata e malvagia che abita
nella mia dimora, dentro di me, ingerendo potassio, che entra nelle fauci come
un flusso di orina calda, dolcissimo e che fa benissimo.
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