giovedì 21 febbraio 2013

Ero piccolo


La dimensione è quella del sogno, o del ricordo. Sta di fatto che tutto è in bianco e nero o meglio, i contrasti, non sono così tanto accesi, tutto è avvolto da un leggero grigiore e la luce è molto tenue.
Mi ridestavo dall’oblio nero. Stavo ancora ad occhi chiusi e la testa si appoggiava laterale, cullata dalle pieghe calde del cuscino morbidoso…oso…oso. Non troppo distante dalle labbra, il pollice sinistro giaceva ancora morto, affogato da una saliva ormai ispessita e infreddolita.
 Mi svegliava un bacino, di quelli piccoli, piccoli, che hanno la leggerezza propria del loro suono a contatto con un guancia di fanciullo beato, che profuma di notte. Si allontanava lesta e veloce la cara ombra, illuminata di spicchio da un giallo ocra meno caldo ma forse più curioso del mio letto. Sapeva di panni a sciorinare, di bucato candido e di pelle morbida e pulita, dolce di natura. Addensata al centro della cameretta svaniva via, ombra dell’ombra e filtrava adagio, lontana, attraverso lo spiraglio della porta. Avrei voluto fluttuare anch’io dietro quell’essenza di fiore di loto, di principessa d’Egitto, e infilarmi alla base del collo, sotto la nuca, sotto la miriade di capelli sottili e biondi, vivere per sempre solo di quel profumo.
 Il caldo mi tratteneva nel mio lettino, dentro la conca accogliente, calco del mio corpicino, e mi rilassava di nuovo, mi abbandonava mi addormentava.
Con gli occhi chiusi le due piccole narici si muovevano ad intervalli, come quelle di un formichiere vicino al suo pranzo, e assimilavano goccioline di vapore nero, tostato, ridestato dalla luce del mattino. Quel sapore dell’aria m’incuriosiva, mi rassicurava e mi faceva voltare, finalmente reggere il pesante e goffo gigante di piume con il braccio al vento, alzarlo e toglierlo da sopra le gambine teneramente ossute, dal piccolo torace diaframmaticamente ritmico.
Era davvero un gioco stropicciarmi la minuscola canottiera di cotone mentre a piedi nudi, scosso da un brivido di freddo, dondolavo le zampine ai piedi del letto.  Era divertente schiacciare i paffuti e rotondi piedini sopra le freddissime mattonelle di marmo chiaro, scoprire quella più fredda, saltellare dall’ una all’altra. Col sorriso lievemente abbozzato sapevo già a quale altezza e sopra quale termosifone di ghisa, color panna, avrei scoperto la mia camicetta a quadri rossi bianchi e blu, riscaldata. Era rinascere indossarla, era il regalo d’ essere un piccolo cucciolo fortunato, passare braccino per braccino dentro il vestito, sentirne il profumo di cotone asciugato, fresco e balsamico allo stesso tempo, serrarmelo al corpo bottone bianco per bottone bianco, capace di farlo da solo, sentire il cuoricino pulsare frenetico, sotto la canottiera, sotto la pelle, dentro i polmoni.
Trotterellavo basso verso la cucina cercando di scoprire tutte le volte, come ogni mattina, se dalla mia visione più bassa di tutti gli altri, diversa, si potesse scoprire un’imperfezione, un avvenimento che potesse farmi ridere o far ridere. Guardare e tentare di sorprendere in ogni antro oscuro che si affacciava sul corridoio, magari un piccolo topolino che faceva pipì o un armadio furioso che diceva parolacce o una telefono che si grattava il sedere. Non succedeva mai nulla che non avessi già visto, eppure la realtà non era quella che vedevo, io ci credevo sul serio e una mattina avrei scoperto qualche stortura e avrei riso, riso a crepapelle.
Balenavo in cucina, colla nuca stropicciata all’altezza del tavolo rotondo, smaltato d’avorio, e fantasticavo su cosa ci poetesse stare sopra. Vedevo solo una cravatta dondolante, imponete e sentenziosa, a righe spesse, bianche blu e rosse, ne osservavo la punta che verso il basso giocava con me, m’indicava dove sedermi o cosa bere o dentro quale barattolo di marmellata intingere il pollice appiccicoso. Era divertente. Era uno spasso quando sfiorava il cappuccio della locomotiva grigia, dal fumo energico, profumato di chicchi neri, seccati al sole. Attendeva al centro del tavolo, alla stazione fiocchi d’avena, spesso percorreva rotaie del cielo e vorticava tra cattedrali di latte caldo, torri di cioccolato in polvere, grattacieli di fette biscottate e teatri di zucchero di canna. Era uno schianto essersi svegliato, continuare a ridere e a giocare. Non era finita lì, sarei andato dagli altri bambini, avrei sognato con loro tra poco.
Ero piccolo. Ero felice.

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